Recensione: Høstmørke

Di Daniele Balestrieri - 9 Aprile 2004 - 0:00
Høstmørke
Band: Isengard
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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79

Era il tardo autunno del 1994, e Fenriz si trovava a passeggiare nelle gelide foreste scandinave, inebriato dall’odore delle cortecce umide degli abeti e dai misteriosi rumori del sottobosco. Il suo cuore norvegese pompava sangue nel cervello, e in uno stato di ispirazione pura chiese al suo amico Satyr di fotografarlo in una hytta di legno scuro e gelido: in un click nasce la leggenda degli Isengard, progetto laterale dei suoi Darkthrone, gruppo seminale del black metal norvegese. All’urlo di “Death is certain, life is not”, Fenriz getta su uno spartito le prime note di “Neslepaks“, la creazione al rovescio secondo l’anima pagana. Al principio non volle solamente scriverne il titolo al contrario (la cui lettura è “skapelsen”, “creazione” appunto) ma addirittura volle cantarla interamente al contrario. I fumi dell’alcool non gli concessero tanta grazia, e decise quindi di cantare comunque ciò che accadde secondo lui dall’ottavo al dodicesimo giorno che seguirono i sette giorni della creazione. E come dio creò mare, cielo e terra, così li ingoiò tutti progressivamente, sporcandoli e facendoli sparire dall’immondizia di ciò che aveva modellato dal sangue e dal fango.

Høstmørke, l'”oscurità dell’autunno”, completa il grande progetto folk iniziato con Vinterskugge (“le ombre dell’inverno”), dando una degna cesura a ciò che aveva ispirato il grande batterista: creare un lavoro che insieme a Nordavind degli Storm desse un’immagine epica, potente e violenta del popolo norvegese, un’immagine profondamente anticattolica e pagana. Gli strumenti sono sempre gli stessi: chitarra monocorde, batteria minimalista e una voce calda, profonda, vibrante, possente, che strazia e lacera l’aria come un soffio di vento del nord. Neslepaks non si apre con il gelido urlo di Vinterskugge, ma al contrario si modula in un canto a più livelli, un canto più maturo e rigoroso rispetto alle sperimentazioni anche un po’ giocose di tracce come “Naglfar” o “Storm of Evil”. No, høstmørke non cede alle lusinghe della sperimentazione, ma si incanala in binari folk più netti e precisi, binari seguiti con rigore nella seconda traccia, “Landet og Havet“, la terra e il mare, che ci mostrano un Fenriz molto più vicino agli Storm che ai Darkthrone, un cantato corale, profondissimo, che rimbomba nei fiordi e nelle vallate, senza una strumentazione sufficiente a categorizzarla come canzone, creando così una specie di elegia della terra norvegese, dove il silenzio regna sovrano, e l’unica voce che può spezzare tale equilibrio è una voce puramente norvegese. Il nazionalismo campanilista erutta quindi in “I kamp med hvitekrist“, in guerra con il cristo bianco, una fantasiosa lettura del culto cristiano che ha spazzato via la cultura scandinava soggiogandola alla croce, nascondendo i legni delle navi e utilizzandoli per costruire chiese invece di teste di draghi. Questa terza traccia è una delle più complesse a livello strumentale, i riff sono sempre minimalisti ma colgono l’ascoltatore di sorpresa, gettandolo per poco più di tre minuti in un abisso fatto di emozioni, di cuore, di vena epica inestinguibile. Il titolo retrò di “I ei gran Borti Ilsen” completa la struttura goliardica di Fenriz trascinandoci ancor di più in un medioevo scandinavo fatto di un ossessionante riff bolerico di tastiera, rotto unicamente da chitarre sporadiche schiantate su un tappeto di gorgoglii, dove le parole perdono significato e solo la voce riesce a raggiungere il cielo, una voce semplicemente cantata, fatta semplicemente di sillabe, un mero accompagnamento, che preferisce l’atmosfera al significato.
Ormai in fase di completamento, la missione di Fenriz riprende la via melodica, e in “Over de Syngende ode moer” il poliedrico batterista riprende il cantato aggressivo ed epico di Vinterskugge, in un perenne riverbero di chi sta cantando dentro una caverna piuttosto che di fronte a un microfono. Chitarre sempre minimaliste, con il classico effetto-zanzara Darkthroniano, e una costruzione di riff estremamente orecchiabile e piacevole, che pone fine al periodo folk di spalla e modella forse la canzone migliore dell’album, lontana dalla complicazione delle tre tracce originali di Vinterskugge, ma sempre sullo stesso livello di cuore e passione. Con un sospiro, Fenriz lascia andare la corda folk e decide di chiudere il suo secondo e ultimo album con due eccezionali prove black di cui la prima, “Thornspawn Chalice“, si apre con uno degli urli più devastanti e terrorizzanti della storia del black, urli ai quali Emperor, Immortal e Mayhem non possono che inchinarsi. Tale urlo agonizzante è stato addirittura preso in prestito da Vicotnick di Dødheimsgardiana memoria, mentre la produzione si sporca ulteriormente, i suoni vengono avvolti nell’ovatta e inizia la “bilogia” black, quel black estirpato dai Darkthrone e rifugiato in Høstmørke e Vinterskugge. Entrambe Thornspawn Chalice e “Total Death” sono delle reminiscenze di grande impatto di quel black metal che ha tanto imperversato nei primi anni novanta e che si è spento come una candela mentre gli ultimi relitti dell’inner circle si spargevano per la scandinavia e il cuore puro del “true black” trovava la sua fine per mano della commercializzazione e per la perdita di tali sentimenti distruttivi e nazionalisti delle ultime grandi personalità del black metal norvegese.

Høstmørke è una delle ultime grandi prove di folk nordico, nichilista e possente; accantonato tale retaggio passato, ora il folk di mainstream è tutt’altro, pesca ispirazione dalla letteratura e da un’aria viziata dove il guadagno e il pubblico sono le prime preoccupazioni. Ciò che avrete tra le mani con questo album invece è cuore senza compromessi; è potenza, ispirazione, è uno degli ultimi figli prodighi di una generazione ormai perduta negli abissi del tempo. Ascoltare gli Isengard è tornare indietro nel tempo, è intrappolarsi di nuovo nel movimento più verace del black scandinavo, è respirare per poco più di mezz’ora quell’aria gelida, a volte quasi ridicola, a volte ispirata, a volte sguaiata. Se vi è piaciuto Vinterskugge, o gli Storm, o avete nel cuore il black di antica scuola, questo lavoro entrerà nel vostro cuore. Chi è già dentro la scena troverà commovente questo CD, chi ci entra con questo CD è avvertito: non cercate tecnicismi, non cercate strumenti su strumenti: vi confronterete con una produzione ai limiti del demo, con dei livelli di mix sballati (specialmente nelle ultime due canzoni) e con una produzione musicale che di virtuoso ha ben poco. Questo è uno di quei lavori che ormai di contestualizzata ha solo la leggenda: tutto il resto è rinchiuso in un passato lontano e indistinto, in quelle sonorità che i veri estimatori del black scandinavo non possono non rimpiangere col sangue amaro in bocca. Høstmørke è uno degli ultimi figli di una generazione che al black ha dato tutto, e a cui il black moderno deve tutto.
Che per trenta minuti ci sia quindi un po’ di silenzio: i maestri stanno parlando.

TRACKLIST:

1 – Neslepaks
2 – Landet og Havet
3 – I kamp med Hvitekrist
4 – I ei gran borti Nordre Ilsen
5 – Over de syngende ode moer
6 – Thornspawn Chalice
7 – Total Death

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