Recensione: Haerensleder

Di Daniele Balestrieri - 1 Aprile 2005 - 0:00
Haerensleder
Band: Storm
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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88

È con grande onore che portiamo finalmente allo scoperto quello che i pochi fortunati seguaci della scena più cult del black norvegese non esitano a chiamare il “capolavoro perduto” degli Storm. Giunto alle luci della ribalta con l’ispiratissimo “Nordavind”, il trio norvegese (composto da Fenriz – leggendario batterista dei Darkthrone, Satyr – frontman dei Satyricon e Kari Runeslatten – melodiosa voce dei Third and the Mortal)  fu immediatamente colpito da pesantissime critiche dai propri compatrioti, i quali vollero a tutti i costi vedere un rigurgito di sentimenti nazionalisti filo-nazisti tra i solchi di un album apparentemente celebrativo e intimista.
A causa di ciò, come tutti sanno, della band si persero le tracce – almeno a livello internazionale. La Moonfog rivolse la propria attenzione sulle proprie band primarie e Fenriz, mesto ma furente, tornò sui propri passi a rimuginare sull’accaduto. 
Ci vollero due anni prima che il batterista richiamasse nuovamente a sé l’amico Satyr e l’eterea Kari allo scopo di produrre il “canto del cigno” della sua creatura più nobile, gli Storm. Deciso a mettere a tacere le voci insistenti che continuavano a scambiare il suo amore sviscerato per la Norvegia per una specie di sterile propaganda destrorsa, l’allora ventiseienne di Oslo decise di impugnare di nuovo alcool e penna e di scolpire il requiem intellettuale e morale del suo popolo. Nasce così “haerensleder”, eredità pesante e profondamente ribelle che pone il popolo norvegese di fronte alle proprie sofferenze e alle proprie colpe. “Una volta puro,” – parole sue – “il popolo norvegese è stato ingannato e tradito da coloro che offrivano il pane con la mano destra e stringevano il pugnale con la mano sinistra”.

Quest’album, dalla genesi frettolosa e sanguigna, si pregia peraltro di un’edizione esclusiva in vinile – come all’origine doveva essere anche Nordavind – e una distribuzione unicamente norvegese. Una sorta di risposta a una guerra intima del suo popolo, che non doveva e non poteva uscire al di fuori dei confini della Norvegia. Non sarebbe esistita nessuna edizione pan-scandinava, europea o mondiale. No, come si è soliti fare con i litigi fra familiari, questi panni sporchi dovevano essere lavati in casa, e così accadde. Così come tutte le gemme più nascoste sono anche le più splendenti, così questo Haerensleder brilla di luce propria, mostrando un Fenriz maturo sia liricamente che compositivamente, e un Satyr – nelle inusuali vesti di arrangiatore – in grado di sfornare strutture melodiche complesse, ma allo stesso tempo semplici e dirette come quelle di Nordavind.

Sorge uno dei primi blandi soli primaverili sulle coste occidentali della Norvegia quando, dalle fattorie costruite sulle prime pendici delle braccia salde dei fiordi, con un antico rito le fanciulle dei villaggi portano i primi fiori dell’anno in pasto ai flutti. Un dono al mare che presto accoglierà le lunghe imbarcazioni da pesca e le veloci navi da guerra del popolo vichingo. Ecco “Den Blomsterklynge“, canto malinconico e speranzoso di colei che regge i frutti della propria terra (Kari Runeslatten) in un ancestrale baratto con la vastità blu su cui poggiano le speranze della propria gente, ingenua e con una tradizione animista che ne impregna i cuori pagani. L’incontro ancora una volta felice tra chitarre lente e batterie cadenzate fiorisce in una serie di tempi mezzani quasi più heavy che folk, un pregio notevole e inedito per lo stile Storm, impreziosito ulteriormente da un breve assolo di munnharpe che trascina l’attenzione verso quegli scenari bucolici e potenti tanto graditi a Fenriz. La ruota gira, il ciclo delle stagioni avanza verso l’estate e in Kroer troviamo tutta la vivacità e l’attaccamento alla vita di un popolo: ripetitivo, spensierato e quasi goliardico, basato su un refrain corale di una Kari nel pieno della forma e di un Fenriz in pompa quasi Menhiriana, il canto popolare si gioca su doppi sensi degni della Lokasenna e si protrae per oltre sette minuti, poiché non esiste buio che giunga ad offuscare la notte del circolo polare spegnendone i cori. Satyr e Fenriz, quasi irriconoscibili per le tinte che donano alle loro linee vocali, uniti a voci di cui – anche questo è il black metal – non conosceremo probabilmente mai i padroni. Archiviato l’episodio estivo dell’album, “Fogarinedruen” ci mostra in maniera sublime le tonalità autunnali, con una sapienza di arrangiamenti magistrale il vento del nord si invigorisce di strofa in strofa fino a divenire un tuonare sempre più cupo e forte. È una trama macabra e maligna quella che diparte da Kari går på landet alla volta di Bekjennelse. Uno stridere di chitarra e un violento temporale che preannunciano le atmosfere tragiche e la drammatica voce di Fenriz ove riecheggiano disperati lamenti vecchi mille anni, pianti di chi ha subito un crimine antico quanto l’uomo. Siamo di fronte alla cruda violenza carnale dei ministri religiosi cristiani, sciacalli d’oro e di dignità, incapaci di frenare i vizi che con tanto ardore condannano con le loro stesse prediche. È l’inizio di una piaga che, nota dopo nota, si mostra sempre più tangibile. Un inverno lungo e senza fine, un mørketid di angoscia che avvolge col ghigno tipico del bugiardo che vede i suoi dadi truccati vincere al gioco. In una terra lacerata dalle armi, comprata con la corruzione e sporcata dal sangue di chi l’aveva coltivata e accudita, il fuoco distruttore del nuovo credo divampa senza pietà alcuna. Vano è il fiero sacrificio dell’ultimo condottiero pagano che sull’incedere cadenzato, orgoglioso quanto decadente di “Haerensleder“, si spegne tra le braccia delle ultime valchirie giunte per condurlo alla sala dorata.

Se la storia di una Norvegia piegata sotto la dominazione cristiana è giunta al suo nefasto epilogo nella toccante poesia della title-track, c’è una storia che ancora serba pagine immacolate pronte per essere macchiate e scolpite da un inchiostro nero e putrescente: quella del Black Metal. Improvvisa nella sua semplicità devastante e annichilente, è la voce nientemeno che di Nocturno Culto a riportare a nuova vita la splendida Mellom Bakkar og Berg – originariamente contenuta in Nordavind – in una congiunzione di ugole tanto trascendentali e supreme da non avere eguali nel passato, nel presente e nel futuro.

Cercatelo, bramatelo o nel migliore dei casi custoditelo gelosamente. Il crepuscolo della rinascita pagana, le fondamenta della ricerca e della riappropiazione di valori atavici e antichi quanto il cielo, l’essenza di un genere e di una identità, sono tutte qui. Per molti sarà un fruscio lontano, mentre gli eletti sentiranno il boato primordiale scaturire dall’anima di questo disco, troppo intenso e profondo per colpire chi non sia pronto a una eredità di questa portata.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini
Daniele ‘Fenrir’ Balestrieri

Tracklist:
01. Den Blomsterklynge
02. Kroer
03. Fogarinedruen
04. Kari går på landet
05. Bekjennelse
06. Haerensleder
07. Mellom bakkar og berg

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