Recensione: Harrowing Faith

Di Daniele D'Adamo - 9 Luglio 2016 - 21:45
Harrowing Faith
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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74

L’epopea dell’old school death metal continua. Imperterrita. Inarrestabile. 

Esattamente come accadde nell’inverno del 1942, quando Stalin mise mano ai popoli siberiani, milioni, centinaia di milioni, per respingere a mò di rullo compressore la Wermacht tedesca da Stalingrado e blindare quindi Mosca, altrettante sono – magari solo… migliaia… – le band che si ostinano a percorrere la putrescente strada del death metal vecchia scuola.

Band spesso e volentieri composte non da consumate e obsolete macchine da guerra, bensì da giovani e teneri virgulti, quelli di generazione 2.0. Ansiosi di essere, di far parte dell’anello di congiunzione fra i dettami del verbo suggerito dai Padri (Death, Possessed, Morbid Angel, Dismember, Dissection, ecc.) e il death metal del Terzo Millennio.

All’interno di questa brulicante, marcia e zozza moltitudine ci sono anche gli statunitensi Shed The Skin con il loro “Harrowing Faith”, debut-album appena uscito per la label specializzata in roba infernale, cioè la Hells Headbangers Records.

“Harrowing Faith” è un micidiale colpo basso sferrato con un pugno in disfacimento, da cui spuntano ossa aguzze, scheggiate, spezzate. Gli Shed The Skin s’impegnano, e non poco, a ricreare le malsane ambientazioni ove strisciano vermi, blatte e altri insetti necrofagi che amano la decomposizione organica. Riuscendoci peraltro piuttosto bene grazie alle invenzioni del tastierista Brian Boston.

Però, abbellimenti a parte, è con song come ‘Alpha and Omega’ che il quintetto di Cleveland mostra tutta la sua conoscenza in materia, tutta la sua intrinseca forza disgregatrice, tutta la sua dedizione alle strascinate, morbose, umide sonorità dell’unicità old school. Passando dai rapidi, ma non all’eccesso, quattro quarti, alle smembrature operate dai blast-beats.

Oltre al sound cimiteriale delle chitarre, e del loro invalicabile muro di suono che erigono assieme alla cucitura dei giunti con le pulsazioni malate del basso, è però Ash Thomas che si erge a indiscutibile nocchiero. Condottiero di una formazione sciolta, dinamica, massiccia, coesa. Grazie, a parere di chi scrive, al collante che, a guisa di bava, cola dai lati delle sue labbra in occasione dei growling più scabri, maggiormente aggressivi, profondamente corrotti.

È evidente che gli Shed The Skin non inventano nulla. Eseguono senza errori né forali né sostanziali il loro compito: suonare old school death metal. E ci riescono anche bene, grazie sia allo stile, inappuntabile, e alle song. Sufficientemente varie da catturare, in un modo o nell’altro, l’attenzione dei fan in virtù di un talento compositivo tutt’altro che insignificante.

Daniele D’Adamo

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