Recensione: Hate

Di Fabio Vellata - 12 Novembre 2013 - 21:46
Hate
Band: Dogmate
Etichetta:
Genere: Stoner 
Anno: 2013
Nazione:
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67

Credo musicale ed obiettivi rispettati in pieno per i romani Dogmate: incidere un album di pesantissimo groove-stoner metal, con evidenti rimandi thrash, in cui il termine “pesante” sia qualcosa in più di un semplice e banale aggettivo da inserire in biografia.

Poco più di un anno di militanza ed un pugno di canzoni dai tratti ruvidi e poderosi – cui addizionare buonissime caratteristiche tecniche di base – sono stati elementi del tutto sufficienti nel destare l’attenzione dell’altrettanto giovane label Agoge Records, pronta nel fornire alla band capitolina una prima occasione sulla quale testare il proprio talento.

“Hate”, un titolo emblematico e significativo, si manifesta nelle sembianze di un debut dalle sfumature decisamente plumbee, possenti e caliginose, in cui, come da “contratto”, non sono le melodie di facile presa, le aperture orecchiabili e la sensibilità per i trend a prendere il sopravvento, quanto piuttosto, il sound opprimente ed ossessivo di un groove arcigno, assiduo, costante, che viaggia a marce basse senza mai fermarsi come un escavatore in trazione.

Il risultato?
Senza alcun dubbio coerente ed apprezzabile in quanto ad aspirazioni e propositi; un po’ penalizzante e di digestione assolutamente difficoltosa in meri termini di pura fruibilità e potenziale d’ascolto.
Monolitico, impenetrabile, pachidermico: il composto sonoro allestito da Stefano Nuccetelli, Ivan Perres, Massimiliano Curto e Roberto Fasciani rischia più volte di apparire privo di varianti ed un pelo monocorde, laddove le cadenze scavate ed i ritmi ossessivi appaiono talora come sin troppo severi ed opprimenti, causa di qualche inevitabile sbadiglio.

Un effetto collaterale certamente messo in preventivo da parte del quartetto, per ispirazione interessato in via del tutto esclusiva (quasi come un “dogma”, per l’appunto) all’allestimento di un sound imponente e massiccio. Soffocante, se possibile, come la opener del proprio esordio discografico, dal beneaugurante titolo di “Buried Alive”, “Sepolto vivo”.
Un esito che alle orecchie della ristretta cerchia di appassionati di stoner/groove metal realmente “heavy”, visionario e distorto non potrà di certo passare inosservato, consentendo la scoperta di una realtà tutta tricolore incurante dei trend e fieramente anticommerciale.

Ottime le chitarre di Nuccetelli e le vocals sofferte – un misto tra Layne Staley degli Alice In Chains e Zakk Wylde – di Massimiliano Curto, punti fermi in un range d’azione che contempla, oltre a sprazzi proprio di Black Label Society ed Alice in Chains, parecchi riff taglienti alla Machine Head ed un incedere sulfureo che non può prescindere dai seminali Black Sabbath.

Cupi, opprimenti, inesorabili ed asfissianti come una colata di catrame.
Chi è disposto a farsi asfaltare?

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