Recensione: Hate Box

Di Stefano Ricetti - 8 Febbraio 2007 - 0:00
Hate Box
Band: Mantra
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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70

I toscani Mantra, a due anni dal precedente Hard Times, fanno finalmente uscire il pluriannunciato Hate Box, scritto da tutti i componenti della band, ovvero: Gianluca Galli (Time Machine) alle chitarre, Jacopo “Tygers of Pan Tang” Meille al microfono, Andrea Castelli  (Airspeed, Shabby Trick e Cappanera) al basso e Senio Firmati alla batteria. In Hate Box i Nostri riescono ad amalgamare l’hard rock della tradizione inglese dei Seventies, da sempre fonte divina di ispirazione, con la violenza moderna delle chitarre a la Zakk Wylde dei Black Label Society.

Si parte con l’hard rock di I Believe, con il basso del veterano Andrea Castelli molto presente misto a un riff portante di scuola british stile Black Sabbath e si chiude con A Minor Bird, per chi scrive l’highlight dell’album: un brano celestiale, cerebrale, a la Virgin Steele, con il piano e la voce che disegnano affreschi nell’immaginario dell’ascoltatore. Peccato duri solo poco più di tre minuti.                     

Fra questi antipodi, tra gli episodi meglio riusciti di Hate Box, va sicuramente annoverato Time and Space, ammorbato da suoni di chitarra prima classici e poi moderni, con uno Jacopo Meille in veste di cerimoniere, per un brano dal bridge irresistibile, così come Somewhere Sometimes, un lento dal flavour western’n’country che pare concepito in Arizona piuttosto che nella nostra Toscana.
 
Per quanto riguarda il resto, si passa dai brani dal taglio moderno come Drifters e Win Lose or Draw, con la chitarra di Galli “grassa” a la Zakk Wylde, a pezzi “Zeppeliniani” come She, invero poco convincente, e Hit&Run, un blues dal chorus interessante. Hard Times è trascurabile nonostante il riff granitico così come la veloce Saving Grace, che però scorre senza infamia e senza lode, nonostante l’ascia di Gianluca particolarmente dura.

In definitiva Hate Box è un lavoro a tratti coraggioso, che volutamente si distacca dai soliti cliché preordinati. Suona fresco e nei momenti più lenti tocca l’apice dell’ispirazione, cosa che non si può asserire nelle parti hard, che riescono a convincere solo a metà.

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

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