Recensione: Havoc

Di Tiziano Marasco - 23 Marzo 2016 - 0:00
Havoc
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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83

Si può dire che il metal sta morendo, che il prog sta morendo, sulla scia delle morti illustri che costellano la storia recente. Si può anche dire che quegli eroi non possono essere sostituiti. Il che, nel bene o nel male, è pure vero. Ma si può anche ascoltare che cosa il metal e il prog offrono oggidì. E capire che sono generi vivi, maledettamente vivi e brulicanti di nuove proposte. Quel che è “peggio“, queste proposte sono originali. Caligula’s horse, Karnivool, volendo anche i nuovi Leprous o Tesseract. Tutte queste band negli ultimi anni hanno contribuito a creare un nuovo “trend“. Lo si definisce prog, o lo si fa rientrare a forza in questa categoria andando per esclusione, ma decisamente la cosa è piuttosto tirata per i capelli, una classificazione che va stretta. E il concetto è ribadito, ce ne fosse bisogno, da Havoc, nuovo parto dei Circus Maximus.  

Diciamolo subito, il nuovo nato dei norvegesi è una bestia strana per diversi motivi. Ha molte affinità con le band citate in precedenza e, ad un primo ascolto, non ha grosse peculiarità stilistiche, tuttavia, nella sua apparente semplicità, fissa tanti paletti espressi da varie band in vari album negli ultimi anni. Prog, si è detto, è un concetto riduttivo. C’è del tecnicismo indiscutibile, un certo gusto per la complessità strutturale, c’è un minutaggio relativamente corposo, ci sono strutture che si evolvono tra groove e cambi di ritmi, ad esempio in tracce come Highest bitter e Loved Ones. Ma c’è molto, molto altro in questo disco. Rispetto a ciò che si definisce prog, troviamo una netta semplificazione, dall’altro troviamo elettricità e durezza, mutuata un po’ dalla parte melodica del metalcore e dal death tecnico (o meglio, dal djent stile Periphery). Ed è sposata ancora a groove ed elementi vagamente retrò, come ad esempio nella title track.

C’è anche, però un incredibile lirismo, che ancora una volta testimonia che in tanti hanno sentito i primi 3 o 4 album dei Muse (prima cioè che perdessero il lume della ragione) e poi hanno fondato una band. In questo senso va inteso soprattutto il cantato, molto sofferto, di Michael Eriksen, e certi altri elementi, che ora qui, ora là fanno capolino in pezzi insospettabili – si ascoltino con attenzione certe tastiere e certi riff di Flames o di After the Fire. 

Ma si era detto che Havoc è una bestia strana. Perché ai primi ascolti dà l’idea di essere, come anticipato, un disco accademico, in cui tutto è al suo posto e in cui vengono presi stilemi propri di altre band. Il che è vero, perché l’album è pervaso di questi stilemi. Ma è anche vero che il quarto album dei Circus Maximus trae proprio da ciò la sua solidità. Si prenda quel gioiello che è la opener, The Weight. Pezzo un po’ Karnivool e un po’ Leprous, chitarre micidiali, tastiere liquide e ritornello emozionalsofferto (parola che non esiste ma che in questo “trend“ va forte). Niente di particolare insomma, ma una volta sentita non esce di testa.

E non finisce qui. Questo disco, inizialmente così stilizzato e anonimo, si svela piano piano per essere molto variegato, e in un modo insospettabile. Qua e là verrete sorpresi da certe melodie che si portano in groppa uno strano retrogusto di certo rock radiofonico ottantiano – ancora sugli scudi le due simil-suite Loved ones e After the fire, ma va detto che quest’ultima più la si ascolta e più svela dettagli imprevisti.

Insomma, forse non brilla per carattere, questo Havoc, ma va detto che se lo sentirete, non riuscirete  a confondere i Circus Maximus con nessuna delle band citate in questa recensione. Piuttosto, si tratta di un disco ancorato ad una ottima qualità, ad una grande abilità tecnica e, più di tutto, ad un’incredibile disco per le melodie. Havoc è un album che, superata la prima diffidenza, va giù d’un fiato, senza intoppi e con gran gusto. Bene così.

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