Recensione: Havoc [EP]

Di Ottavio Pariante - 2 Maggio 2014 - 17:44
Havoc [EP]
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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68

 

«… mi sento un bersaglio mobile, falcidiato dal tempo e dall’arroganza di un sistema che non è mai stato mio.
Metto in scena la mia protesta, con il coraggio, che mi spinge a lottare ed a non mollare mai.
Sarò io a mietere vittime.
Plasmerò la mia “arte di distruzione”, usando come arma letale: la parola, che come una litania avvolta in quel silenzio, sa far rumore e male.
Ed ora ascoltate e meditate…»

            
Con questa prefazione alquanto apocalittica, mi sono ‘divertito’ a dare una mia interpretazione al messaggio che gli Obey To Elegies, giovanissima deathcore band partenopea, hanno cercato di dare attraverso la stesura delle sei tracce (più una d’introduzione strumentale), che compongono il loro primo EP, intitolato appunto “Havoc”.

Devo essere sincero, abbiamo a che fare con un mini-album che mi ha felicemente sorpreso sin da subito, non solo per un discorso tecnico-compositivo che andremo ad analizzare più avanti, ma per la quantità industriale di diverse chiavi di lettura che un ascoltatore può trovare in esso. Parliamo quindi di un dischetto molto coraggioso e intrigante, messo su da un ensemble giovanissimo artisticamente parlando, ma dalle idee molto chiare. Il sodalizio degli Obey To Elegies, per chi non li conoscesse, è nato nel gennaio del 2012 dall’idea di Salvatore Talento (chitarra) e Carlo Guarino (batteria). Ben presto nella band si sono aggiungono in ordine cronologico Giuseppe Basile alla voce, Salvatore De Vincentis al basso e Sebastiano Varrengia all’altra chitarra. A line-up ultimata, la formazione inizia seriamente a lavorare sodo per trovare un sound proprio che li potesse rappresentare al 100% e che li porterà alla realizzazione, nel febbraio di quest’anno, del primo lavoro discografico, oggetto della recensione.

Dal punto di vista stilistico, il sound dei Nostri s’identifica in un deathcore molto tecnico e aggressivo. Poco melodico ma pregno di atmosfere interscambiabili tra di loro, che si avvalgono d’influenze molto prestigiose per quanto riguarda il settore del deathcore mondiale: As I Lay Dying e Parkway Drive su tutti. Influenze che non hanno privato la band della costante ricerca della propria dimensione artistica.

Come detto a inizio recensione, sono sette le tracce che compongono questo “Havoc”, tutte molto interessanti ed elaborate, nello stesso momento dotate di minutaggio non eccessivo. Quest’ultimo fattore è assolutamente da tenere in considerazione, in quanto il quintetto riesce con discreto successo a esprimere al meglio le proprie qualità e a ottimizzare al massimo tutte le sfaccettature della propria proposta, senza scadere nel ‘già sentito’, cercando, in un lasso di tempo sicuramente limitato, di catturare l’attenzione di chi vi scrive e dell’ascoltatore. Essendo un esordio vero e proprio, “Havoc” possiede nel proprio interno, come giusto che sia, qualche imperfezione ma sono per lo più i pregi a farla da padrone.

Entrando nello specifico dei brani, si parte con “Cyterea Sea”. Abbiamo a che fare con un intro breve ma piacevolmente claustrofobico. Un piccolo antipasto che si adagia su onde ambigue, portatrici di nulla di buono. Da lì a breve i napoletani si scatenano con la prima vera traccia dell’EP: “Premonition”, dove tutto il malessere nascosto viene fuori con tutta la potenza possibile. Il pezzo parte fortissimo e in esso si denota il volere della band di preferire l’approccio death, più cupo e più intransigente e sicuramente meno commerciale, a quello metalcore, che a mio avviso rimane spesso a fare da contorno. Un pezzo dove la melodia scarna ma efficace si mescola alla perfezione con gli stop’n’go, non sempre originali ma di sicuro effetto. Ottimo, come accadrà in quasi tutte le tracce del dischetto, il lavoro dietro al microfono del cantante Giuseppe Basile, il quale attraverso un approccio cavernoso e aggressivo riesce a donare quella giusta profondità e pesantezza alle liriche.

Nel successivo “Pandemonium” è invece la sessione ritmica a farla da padrone. A scanso di equivoci, è bene evidenziare che questo è il migliore pezzo della produzione degli Obey To Elegies, poiché si certifica un’interessante solidità d’insieme che ben fa sperare per il futuro. Anche in questo brano Basile e compagni non inventano nulla ma non si limitano nemmeno a eseguire il compitino. Con la possibilità di eccedere nella ricerca di una propria dimensione, la banda sciorina con rabbia tutto il suo credo in musica, senza nessun timore reverenziale. A differenza del pezzo precedente, è premiata la scelta di dare un po’ più spazio alla melodia, ben inserita nei continui cambi di registro eseguiti puntualmente come marchio di fabbrica. Dopo un brano cosi si può facilmente prevedere un calo, che a sorpresa non avviene. Con la successiva “Brotherhood”, i Nostri colpiscono ancora più duro. La quarta traccia, infatti, è tra le più aggressive del mini-album. Pur tenendo fede alle linee guida fino a ora proposte, gli Obey To Elegies decidono di non fermarsi e continuano a eruttare riff come lapilli impazziti. Un brano che in sede live potrà dire ancora di più la sua, grazie al suo spirito irrequieto e rissoso.

Con “Prisoner Of My Own Rib Cage” si registra il primo mezzo-passo falso, giacché nonostante una promettente partenza, il pezzo subisce una brusca frenata dal punto di vista compositivo per poi recuperare il tempo perduto nella parte finale, ove la band si scrolla di dosso tutti i cliché del genere e si scatena in un blast-beats infernale, chiudendo cosi degnamente questo controverso brano. Un piccolo passaggio a vuoto assolutamente transitorio, in quanto con la successiva “Broken Memories” gli standard qui proposti subiscono un altro inaspettato salto in avanti. Qui non manca praticamente nulla, in quanto si cerca la sperimentazione assumendo nel songwriting atmosfere sempre più contrastanti tra di loro. Dopo un inizio affidato a un delicato arpeggio di chitarra, la sessione ritmica comincia a macinare subito una quantità devastante di riff prendendo il possesso della scena. Le dinamiche si distendono su tempi non elevatissimi ma ad alto contenuto di groove. Abbiamo a che fare con un pezzo istrionico e intrigante, che mette in evidenza il grande coraggio dei cinque di mettere su qualcosa di personale. Questo interessantissimo EP chiude i battenti con “The Last Remaining”, a mio avviso canzone che non aggiunge e non toglie niente a quello che è stato scritto sinora. Un buon brano ma inferiore qualitativamente rispetto ai precedenti.

In conclusione possiamo dire senza dubbio che abbiamo tra le mani una band dal potenziale enorme, ancora non del tutto espresso, che però con coraggio e dedizione ha messo su un lavoro godibile e del tutto personale.

Ottavio “octicus” Pariante
 

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