Recensione: HCSS

Di Marco Donè - 8 Maggio 2015 - 15:00
HCSS
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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55

Dopo il mezzo passo falso fatto con C’mon Take On Me, c’era grande attesa attorno al nuovo lavoro degli svedesi Hardcore Superstar. Una sorta di prova del nove per testare lo stato di forma della band di Goteborg. Una band che dal 2005 al 2010 aveva inanellato quattro dischi semplicemente perfetti, che l’avevano candidata di diritto ad assumere il ruolo di erede di quella scena che negli anni Ottanta annoverava formazioni come Skid Row e Motley Crue, giusto per citare due nomi. Nonostante questo però, dopo l’album pubblicato nel 2013, i più maligni la davano indirizzata verso un lento ma inesorabile declino.

Il nuovo disco si intitola semplicemente HCSS – diminutivo della band – e stando alle dichiarazioni del quartetto svedese è un disco nato dopo l’ascolto di vecchi demo registrati nel 1994, demo da cui sarebbero successivamente nati gli Hardcore Superstar. Un lavoro che dovrebbe quindi riportare il sound di Jocke Berg e soci alle origini. E’ inevitabile, di conseguenza, pensare agli esordi della band, a quel It’s Only Rock’n’Roll ed alla sua successiva, rinnovata e definitiva versione intitolata Bad Sneakers And A Pina Colada. Esordi in cui l’arroganza glam si mescolava ad una grezza sfrontatezza punk.

Le premesse per un nuovo terremotante disco griffato Hardcore Superstar erano così state scritte. Ora, con l’album fresco d’uscita, non rimane che scoprire se HCSS abbia dalla sua le capacità di non deludere le aspettative create. Evitando inutili giri di parole, chi attendeva un Bad Sneakers And A Pina Colada pt II si metta pure il cuore in pace, HCSS non va in quella direzione. Allo stesso modo, chi si aspettava un disco che riportasse gli Hardcore Superstar ai livelli cui ci avevano abituato sino al 2010, rimarrà purtroppo deluso. Il nuovo lavoro lascia infatti l’amaro in bocca. Il songwriting risulta fiacco, l’arroganza e la sfrontatezza citate poco sopra, caratteristiche dei migliori Hardcore Superstar, vengono meno. Ci troviamo al cospetto di un album che continua il percorso di alleggerimento del sound iniziato con il precedente platter, un disco che ruota attorno alle orecchiabili melodie tracciate dalle linee vocali di Jocke, come se il quartetto di Goteborg avesse deciso di puntare ad un approccio più mainstream e ruffiano. La stessa produzione sembra andare in quella direzione. La batteria infatti è priva di mordente e le chitarre risultano quasi nascoste per lasciare più spazio al basso e mettere in primo piano la voce. Ovvio, non tutto è da buttare, qualcosa di buono c’è. Il problema è che gli highlight del disco risultano canzoni discrete, tutt’altro che memorabili. Così l’opener Don’t Mean Shit è una discreta punk rock song che lascerà poco di sé ad ascolto finito, la successiva Party Till I’m Gone mette in luce il lato più stradaiolo dell’hard rock suonato dal quartetto svedese, ma la produzione non valorizza l’aggressività della canzone, tutt’altro, la rende fiacca. A salvarla sono le melodie vocali e la bella prestazione del già citato Jocke Berg. Possiamo dire la stessa cosa anche per la successiva e divertente The Cemetary. Si prosegue poi con Off With Their Heads che assieme alla più diretta The Ocean risulta esser la traccia migliore del disco. Proseguendo l’ascolto è inevitabile notare come la seconda parte di HCSS spinga ulteriormente al ribasso la qualità dell’album. Incontriamo infatti una serie di tracce poco ispirate in cui è ancor più evidente l’approccio ruffiano e mainstream portato avanti dagli Hardcore Superstar in questo lavoro.

Analizzando la carriera della band svedese va detto che non è la prima volta che Jocke e compagni vengon tentati da una svolta mainstream. Il primo tentativo risale al 2003, con quel No Regrets con cui HCSS, sebbene diverso, sembra avere più di qualche punto in comune. Come valutare quindi il nuovo lavoro degli Hardcore Superstar? Come un platter che prova a fare presa sul grande pubblico, un album basato su melodie immediate ed ammiccanti, un disco ben lontano dalla qualità cui il quartetto ci aveva abituato, ma in cui non tutto è da buttare. Certo, una manciata di canzoni carine non risollevano le sorti di un lavoro poco ispirato, ma perlomeno evitano alla band di cadere in un profondo baratro da cui sarebbe difficile riuscire a rialzarsi. Sicuramente i fan più intransigenti e legati alle sonorità del disco omonimo del quartetto di Goteborg spareranno a zero su HCSS, come spareranno a zero sul chitarrista Vic Zino, vero capro espiatorio di probabili colpe altrui. La speranza è che la band, come già successo dopo l’uscita dell’altrettanto infelice No Regrets, possa ritornare sui suoi passi e regalarci un altro quinquennio d’oro, una sorta di terza giovinezza. Anche se, ad esser realistici, i segnali dati negli ultimi anni fanno presagire tutt’altro.

 

Marco Donè

 

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