Recensione: Hellbound

Di Daniele D'Adamo - 4 Novembre 2013 - 16:09
Hellbound
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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77

 

Tremendi, massicci, chirurgici.

Così, con tre aggettivi, si potrebbero condensare i Fit For An Autopsy, fra gli alfieri della new wave del deathcore statunitense. Un’ondata sulla cui cresta staziona gente come i Suicide Silence, gli All Shall Perish e i Whitechapel che, assieme ai Nostri, formano lo zoccolo duro di un genere che fonde in maniera eccellente presente e passato.

Un passato segnato pesantemente da act leggendari fra i quali non si possono non menzionare i Death, i Cannibal Corpse, gli Obituary. Un passato che emerge prepotentemente in virtù delle secche sonorità hardcore le quali, quasi paradossalmente, forniscono gli spunti stilistici sui quali erigere il concetto di modernità. La scarna, metallica struttura delle ramificazioni *-core, infatti, si presta idealmente per essere integrata e irrobustita dalle mille complicazioni ritmiche di cui è capace il death. Senza tuttavia perdere nemmeno per un istante la bussola, la giusta direzione, la retta strada; contrassegnata da una straordinaria abilità tecnica che, fra i suoi effetti immediati, ha quello rendere perfettamente intelligibile, in ogni suo più recondito anfratto, il deathcore tutto.

“Hellbound”, secondo full-length dei Fit For An Autopsy, che segue il debut-album del 2011 “The Process Of Human Extermination”, si rivela per ciò una vera e propria bombardata sui denti, tuttavia leggibile con estrema facilità in tutte e sue le dieci tracce. Certo, la potenza è esorbitante e l’estremismo sonoro è ai massimi livelli, fra grandinate di blast-beats e terrificanti breakdown, ma la bravura di Nate Johnson e compagni è tale da far sì che non sia abbia mai la sensazione di varcare i confini del caos. Nemmeno nei frangenti in cui il rabbioso e sclerotico growling del vocalist sfiora l’inhale o lo scream. Ove, cioè, l’attacco fonico raggiunge i piani più alti.

Il combo del New Jersey, del resto, non fa della forza bruta la sua arma principale. Spesso e volentieri, difatti, affiora un tono melanconico se non triste, forse frutto delle tante domande che il combo stesso si fa in merito all’attuale situazione socio-politica internazionale. Un timbro che arricchisce le varie song inspessendole emotivamente ben al di là dello sconquasso alle budella provocato dai tipici stop’n’go del genere. Parlare di melodiosità è sicuramente troppo, ma canzoni come “Do You See Him” e “Tremors”, oltre a sfasciare tutto e tutti, innescano un sentimento di afflizione che attraversa come un fulmine nero l’immensa energia azionata dai cinque musicisti. Il loro pessimismo per una soluzione definitiva ai tanti mali che affliggono l’Umanità è così palpabile, anzi concretamente ravvisabile in un sound spesso tetro e oscuro. Una sensazione d’insicurezza e fragilità che emerge anche negli episodi più complessi, come nell’articolata, convulsa, concitata “Dead In The Dirt”, violentissimo schiaffone che ricorda, un po’, l’avanzare disarticolato degli Slipknot. Proprio per ciò, apparentemente instabile e imprevedibile a causa dei numerosi accidenti e arzigogoli musicali presenti.

Comunque sia, i Fit For An Autopsy riescono a essere a loro modo piuttosto accattivanti: lo stile, pur non regalando molto in termini di originalità e/o innovazione, è assai maturo e completo, potendo soddisfare con ciò anche i palati più fini oltre che rivestiti d’amianto. Un carattere deciso e forte che spunta fuori anche nelle composizioni, strutturalmente allineate ai dettami del genere ma aventi, in sé, quel ‘qualcosa in più’ che manca, invece, a grande parte della massa. Cioè, quello spunto, quel tocco, quel particolare in grado di rendere ciascun pezzo riconoscibile singolarmente, seppur diluito coerentemente nel lavoro preso nel suo complesso. La produzione a prova di difetti da parte di una major come la Steamhammer, inoltre, fa risaltare grandiosamente un sound che, oggi come oggi, può essere mutuato ovunque quale metro di paragone per il deathcore.  

Con che non rimane che tributare i giusti onori a “Hellbound” come opera fra le migliori dell’anno in materia di deathcore. Con gli oneri che ne derivano di conseguenza, relativi cioè alla dovuta conferma, anche dal vivo, della tremenda consistenza di cui è emblema.

Bravi, davvero bravi, i Fit For An Autopsy.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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