Recensione: Hellmouth

Di Daniele D'Adamo - 7 Dicembre 2016 - 0:00
Hellmouth
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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80

Il nuovo millennio, fra le novità apportate, ha soprattutto decretato la nascita di una nuova fattispecie musicale che ha messo piede con prepotenza nel terreno del genere stesso da cui è nata, il death metal. È il deathcore. Il quale, a dimostrazione di quanto appena asserito, fra l’altro, si sta suddividendo a sua volta nelle stesse sotto-famiglie del death medesimo.

Gli Science Of Sleep, tanto per intendersi, si possono inquadrare nel brutal deathcore, foggia violentissima del già violento deathcore classico. Tutto ciò che confluisce a formare i dettami stilistici del tipo-madre, cioè, è portato all’esasperazione, al massimo possibile, oltre i limiti dell’umana sopportazione.

La tecnica strumentale, per operare una tale, incommensurabile pressione sonora, abbisogna dei migliori musicisti presenti sul mercato. Capaci di razionalizzare al 100% l’immensa potenza che circola nel loro sangue, nei loro muscoli, nei loro nervi, nel loro cervello. Nella loro anima.

Compresa la parte produttiva. Cioè, registrazione, missaggio e masterizzazione. In questo caso, non a caso, assegnata alle sapienti mani di Simon Hawemann (War From A Harlots Mouth, Nightmarer) e Andy Marsh dei Thy Art Is Murder, a loro volta musicisti delle migliori band reperibili sul territorio, in argomento.

Così, gli Science Of Sleep hanno potuto liberare con controllo assoluto la loro titanica possanza, e inserirla negli undici brani che compongono il loro secondo album in carriera, “Hellmouth”. Un full-length devastante, apocalittico, che suona come un rasoio, talmente è tagliente il suo sound. Assolutamente da prendere e mettere da parte come metro-campione per quello che è il massimo ottenibile nel campo del deathcore, oggi.

In “Hellmouth”, dato atto che trattasi di brutalità pura in primis, non c’è ovviamente nemmeno un accordo melodico. Il che comporta l’immediata consapevolezza che il viaggio dall’opener-track nonché title-track ‘Hellmouth’, alla closing-track ‘Todestreiben’, sarà solo e soltanto pura sofferenza. Strazio. Pur tuttavia, proseguendo con gli ascolti, il platter entra letteralmente nella carne, buca i timpani, fora il cervello. Apportando continuamente quanti di energia positiva ai neuroni, per nulla disorientati da sequenze di note perfette nella loro composizione, nella loro esecuzione. Marcus non perde mai un colpo, nella sua incredibile aggressione vocale, irreprensibile sia quando si tratta di growling, sia quando si tratta di screaming. Per non tacer dello spaventoso inhale ch’egli sciorina in occasione dei terribili breakdown rallentati all’inverosimile per penetrare con più decisione nella mente. Sven e Nils, la coppia d’asce, nemmeno a dirlo, innalzano un muro di suono invalicabile ai comuni mortali. Una muraglia la cui durezza è pari a quella del diamante, la cui superficie è levigata, pulita, senza un difetto. Levigata a specchio dal vortice ritmico alimentato dai furiosi blast-beats di Dennis e dalle complesse quanto iper-cinetiche linee di basso disegnate da Phil.

E i cinque tedeschi Braunschweig fanno paura anche come songwriting, la cui classe rende possibile la proposizione di song nettamente diverse fra loro, nel ferreo rispetto di quanto stabilito dal loro stile unico e personale. Pregno di un mood oscuro, tetro, glaciale.

Songwriting che dà vita a strutture dall’alto peso specifico, assolutamente costanti nella loro alta qualità costruttiva, con punte di devastazione chirurgica d’immemore ricordo. Come la grandiosa ‘Condemned to Ruin’, sicuramente uno delle pagine più riuscite del libro del deathcore. Allucinazione totale, trance da hyper-speed, delirio, sfascio, de-molecolarizzazione (‘Swamp’).

Un clamoroso, incredibile, assurdo miglioramento, insomma, da quell’Opera Prima, “Exhaust” (2013), che si era – al contrario – rivelata insufficiente in tutto e per tutto.

Paura!

Daniele D’Adamo

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