Recensione: Heroes

Di Roberto Gelmi - 17 Maggio 2014 - 12:46
Heroes
Band: Sabaton
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2014
Nazione:
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75

Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι

(“La guerra è madre di tutte le cose”, Eraclito, Frammento 53)

Cantate in Carolus Rex (2012) le vicende svedesi nella Guerra dei Trent’anni e quelle della Grande Guerra del Nord, i Sabaton, più virili che mai, pubblicano il loro settimo (escludendo Fist for fight) album in studio, a nemmeno un decennio di distanza da Primo Victoria. Gli scandinavi magnis itineribus (e dopo un tour impegnativo) propongono ora un nuovo platter dal minutaggio risicato e con una nuova line-up, a seguito dello scossone di due anni fa, con l’uscita di scena di quattro sesti della formazione che fu: a dare continuità restano il cantante Joakim Brodén e il bassista Pär Sundström.
Heroes è un disco tributo agli eroi della Seconda guerra mondiale, già Landmark di Coat of Arms del 2010. I ritmi sono sostenuti, non manca una buona ballad e il sound è meno power e più heavy rispetto al passato (soprattutto il drumwork). Di certo i dieci brani composti sono pensati come sempre per fare furore in sede live.

L’opener è di quelli in gran stile: “Night Witches” attacca con cori epici, tra Hammerfall, Iron Savior e Grave Digger. Tanto palm-mute in fase ritmica e un refrain martellante («Killin’ machine in the sky!»). Ispirato l’assolo di chitarra, conciso ma gustoso. I testi sono solenni, con tanto di pronuncia sferzante (mi riferisco alla polivibrante in bella mostra), e commemorano le imprese delle aviatrici del 588° Reggimento bombardieri notturni in forza all’esercito russo nelle ultime battute dal secondo conflitto mondiale.
Dopo un breve fade-out, “No Bullets Fly” presenta un tema iniziale catchy e linee di basso sinuose. Si ricorda l’«incidente» che riguardò i piloti Charlie Brown (ai comandi di un bombardiere della RAF) e Franz Stigler (asso della Luftwaffe). Quest’ultimo, disobbedendo agli ordini, nel dicembre del ’43 si rifiutò di abbattere il velivolo inglese già danneggiato, permettendone il rientro in patria. I due si rincontrarono quarant’anni dopo, diventando grandi amici fino alla morte, che colse entrambi nel 2008.
Attacco ultra-retorico per “Smoking Snakes”, traccia power con qualche sentore di Blind Guardian. I toni non cambiano di una virgola: metallo genuino e pochi fronzoli. Il drumwork di Hannes Van Dahl è preciso, l’assolo di chitarra è forse il migliore dell’album, intriso di epicità spregiudicata. Gli ultimi secondi sono più che grandiosi con una cadenza anthemica. Si narra della “Força Expedicionária Brasileira”, contingente militare sudamericano (composta sia da uomini sia da donne) che combatté a fianco degli Alleati durante la Campagna d’Italia del 1943.
Un mesto Gloskenspiel in apertura di “Inmate 4859”, che prosegue con un riff vicino a quello di “Soul of A Vagabond” degli Stratovarius. Il mid-tempo tratta della vicenda del capitano Wiltod Pilecki, eroe polacco che si fece imprigionare ad Auschwitz per raccogliere informazioni sul campo di sterminio e darne notizia agli Alleati. Riuscirà a scappare nel ’43 dopo tre anni di reclusione, ma verrà ucciso dai comunisti. Il bridge è migliore del mediocre ritornello e offre linee vocali accattivanti, poi riprese dall’assolo della 6-corde. Il finale è mesto, con arrangiamenti corali e un andamento mimetico a dipingere la sofferenza patita dal protagonista, simbolo della Polonia intera.
Elementi sbarazzini (fischi e scacciapensieri) per il singolo “To hell and back”, che, con l’aggiunta di qualche grunt, potrebbe venire scambiato per un brano degli Equilibrium. Si parla dello sbarco di Anzio del 1944 con toni trionfali e dal punto di vista del futuro soldato pluridecorato Audie Murphy (che diverrà compositore di musica country e attore negli States): «A short man from Texas / A man of the wild […] / Crosses grow on Anzio / Where no soldiers sleep».
The Ballad of Bull” è un lento con partiture di pianoforte (e pedale di risonanza inflazionato) e un rullante marziale. I Manowar non saprebbero fare di meglio. Non mancano arrangiamenti pseudo-sinfonici, a rendere la composizione più maestosa. La forza dei Sabaton sta nel levare, non nell’aggiungere, questo brano convince perché lascia immaginare e non soffoca l’ascoltatore. Un ottimo pezzo alla memoria del caporale d’origini australiane Leslie ‘Bull’ Allen, che sul fronte del Pacifico salvò, in veste di barelliere, alcuni soldati americani.
Cassa dritta e ostinato su corda vuota per l’incipit di “Resist and Bite”. Le liriche trattano della strenua resistenza messa in atto dalla fanteria belga nel fronteggiare l’invasione tedesca, che nel ’40 aggirò la linea Maginot. Qualche frase in un latino passabile e il brano volge al termine. Curioso come in poco più di tre minuti la band riesca a confezionare una traccia ben strutturata e con uno svolgimento articolato.
Ancora fricative accentuate in “Soldier of 3 Armies”. I testi recitano: «[…] from Finnish lakes into Germany and USA». L’omaggio in questo caso va, infatti, a Lauri Törni, soldato, prima dell’esercito finlandese, poi SS in chiave antisovietica; infine (dopo un paio d’imprigionamenti in patria e grazia ricevuta) nelle file americane in Vietnam (con il nome Larry Thorne), dove trova la morte nel ’65 a bordo di un elicottero andato schiantato.
La velocità rallenta con il secondo mid-tempo del lotto, “Far from the fame”, che incede senza alti né bassi: ai Sabaton non si chiede originalità, ma sostanza, i fan potranno dirsi accontentati. Il pezzo ritrae la figura di Karel Janoušek, militare nelle schiere russe, durante la Prima guerra mondiale, e poi leader delle forze cecoslovacche in seno alla RAF, il quale sarà successivamente imprigionato in patria dal regime comunista.
Il disco volge al termine con un epilogo privo di sbavature. “Hearts of Iron” presenta gustose tastiere in sede d’arrangiamento e una sezione per sola voce solista, cassa e rullante. Si accenna un classico bachiano, il “Secondo movimento della Suite n° tre in re maggiore” (BWV 1068), impropriamente noto come “Aria sulla IV corda”. Quale migliore tributo alle armate tedesche, che si spesero sulle sponde del fiume Elba, per consentire la ritirata di compagni e rifugiati, in modo d’arrendersi nelle mani ben più comprensive degli Alleati e non finire prigionieri dei sovietici? Il brano di J. S. Bach è intriso di amore per la morte, come da tradizione teutonica: in questo caso si tratta di una morte degna ed eroica.

Come bonus track la ruffiana “Man of War“, con refrain cadenzato e parte corale da stadio in perfetta tradizione “hammerfalliana”. Altre edizioni dell’album prevedono, infine, alcune cover: il classico dei Metallica “For Whom The Bell Tolls” (scelta più che scontata) e un brano dei compagni di tour Battle Beast e dei connazionali Raubtier (band induastrial metal).

I Sabaton, in sostanza, si ripropongono più baldi che mai, dopo le vicissitudini degli ultimi tempi e sono salvati ancora una volta dal basso continuo tematico, riguardante la guerra. I dieci brani di Heroes, infatti, sono un campionario di vicende e figure storiche poco note ai più: gli svedesi sfruttano intelligentemente la questione bellica, eternando la memoria di uomini e popoli che i libri di Storia spesso trascurano. Non si bada, inoltre, alle frontiere (si veda l’artwork alternativo dell’album), ma si canta anche di soldati tedeschi e di chi, in tutta coscienza, ha disobbedito a ordini disumani.
Un album per caricarsi d’energia e uscire dalla frustrazione di una giornata storta. Un album, altresì, che potrebbe essere la degna colonna sonora di film e serie tv (penso, su tutte, alle superbe “Band of Brothers” e “The Pacific” targate HBO), che parlano dell’ultimo conflitto che ha devastato l’Europa tutta. Ancora una volta bravi Sabaton!

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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