Recensione: Hidden Hystory of the Human Race

Di Daniele D'Adamo - 22 Novembre 2019 - 0:02
Hidden Hystory of the Human Race
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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77

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Tornano i Blood Incantation, grandi appassionati di fantascienza e di fatti scientificamente inspiegabili o teoricamente ipotizzabili.

“Hidden Hystory of the Human Race” è il secondo album di una carriera cominciata nel 2011, la quale annovera, assieme ad altro materiale, anche il full-length di debutto, “Starspawn”. Di cui il nuovo disco è l’immagine speculare, almeno a livello di tracklist. La formazione americana, infatti, si identifica, anche, per l’inserimento, nei suoi lavori, di soli quattro brani, di cui uno attorno ai quindici minuti. Mentre in “Starspawn” la suite è ubicata all’inizio, in “Hidden Hystory of the Human Race” essa è sita alla fine. Una circostanza chiaramente voluta ma misteriosa. Come, del resto, le tematiche trattate dai Nostri, incentrate sulla mitologia degli dei mesopotamici Anunnaki, la cui origine si immagina, poeticamente, extraterrestre.

Un’impronta lirica, quella di cui sopra, che si riverbera anche nella musica, definita atmospheric death metal mutuando una simile concezione derivante, nella sua forma natia, dal black metal. Molta visionarietà, quindi, molte aggiunte estranee ai dettami di base del genere, una continua ricerca di soluzioni atte a creare, appunto, un’atmosfera rarefatta in cui lanciare le bordate metalliche. Poiché sempre di quello, comunque, si tratta. Nei tre pezzi… normali, ma in ogni caso dalla lunghezza superiore alla media, il death dei Blood Incantation scorrazza avanti e indietro per i multiversi, questo sì, ma mantiene intatta la sua natura umana e il suo flavour primigenio.

Insomma, atmosferico certamente ma sempre death. Furioso, aggressivo e brutale, nelle sezioni convenzionali, ove emerge il roco growling di Paul Riedl a condurre per mano un sound travolgente, i cui ritmi non temono di sforare la barriera dei blast-beats. La produzione è piuttosto sporca ma, al giorno d’oggi, in cui trionfa la tecnologia, sembrerebbe un fatto voluto per rendere ancora più personale e convulso uno stile che, per quanto scritto sopra, risulta piuttosto personale e originale per via sia di un’invisibile anima che ne muove le membra, sia per le continue voglie di sperimentazione che lo agita. Nonostante quest’ultimo elemento tenda a dilatare in ogni direzione un sound tenuto su da una forte personalità, i Blood Incantation non perdono mai di vista la strada maestra, seguendo pedissequamente il filo conduttore che identifica la loro foggia musicale in maniera univoca.

Uno stile davvero riuscito in tutti i suoi aspetti, che fatica un po’ a entrare nella mente dell’ascoltatore ma che, una volta superata la barriera del pregiudizio, diventa improvvisamente amico e compagno di ore e ore passate davanti agli speaker. Perché così è: se si effettua qualche passaggio con poca decisione e concentrazione, ecco che il combo di Denver non riesce a espletare tutta la sua tensione, tutta la sua forza allucinante, tutta la sua anomalia. Cosa che non deve essere. Assolutamente.

In particolar modo per quanto concerne l’immensa suite finale di cui s’è fatta menzione, ‘Awakening from the Dream of Existence to the Multidimensional Nature of Our Reality (Mirror of the Soul)’. Nei diciotto minuti a loro disposizione, i Blood Incantation scatenano tutte le loro energie per indurre la mente a fuggire dalla tangibilità del mondo reale per entrare nell’aere di quello immaginario. Allora, si  dipana una sequenza musicale che induce profondi stati di allucinazione nei quali si dipartono come ramificazioni fenomeni paranormali come bilocazioni, esperienze extracorporee, viaggi astrali, sino giungere a vivere esperienze ai confini della morte. È qui, quindi, che si manifesta e vive a 360° l’aggettivo atmosferico, in una sorta di limbo lisergico da cui è impossibile uscire. Almeno sino a quando non termina la song.

Stringendo, è evidente che “Hidden Hystory of the Human Race” non sia un album per tutti, ma solo per coloro i quali amano gli azzardi più spinti, scevri dai consueti parametri metrici e dimensionali. Purtroppo, almeno a parere di chi scrive, alle quattro canzoni manca quel quid tale da elevarle a esempio di uno stile, come detto, adulto e personale. Qualcosa, magari qualche sprazzo di melodia o qualcosa di sensazionale, che le renda memorabili in sé e non eccezionali frammenti di un sound, al contrario, da godere appieno, compresi tutti i suoi infiniti tentacoli.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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