Recensione: High

Di Marco Tripodi - 2 Gennaio 2017 - 10:00
High
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 1997
Nazione:
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72

Lesson Learned: it’s ok to be metal”. Non sono anni facili per i Flotsam And Jetsam, e per il metal in generale. Finalmente il decennio nemico del metallo sta per volgere al termine ma ancora c’è da tener duro per qualche anno. Alle spalle un paio di dischi accolti male e malissimo (nonostante in entrambi i casi – “Cuatro” e “Drift”  – si tratti di prove affatto ignobili) e pure il peregrinare di casa discografica in casa discografica mette in luce le paturnie della band. “High” esce sotto le insegne della Metal Blade, nonostante tutto c’è ancora chi crede nel potenziale degli autori di “Doomsday…” e “No Place For Disgrace”.

Il cambio di rotta rispetto al precedente capitolo discografico è marchiano, a forza di prender bastonate i Flots hanno accusato il colpo e, volenti o nolenti, hanno deciso di tornare parzialmente sui propri passi, provando a recuperare un po’ di grinta e velocità (pur senza reimmergersi mani e piedi nel thrash assoluto e totale). I credits del disco fanno mea culpa, la band “ha capito” che essere metal non è una brutta cosa, anche se così ci avevano detto Nirvana, Ministry, Red Hot Chili Peppers e compagnia alternativa. Meglio fare quello che si sa fare, senza improvvisarsi diversi e modaioli (ma non è mai stato il caso dei Flotsam). “High” esce col capo cosparso di cenere (di sigaretta), con richiami alla classicità evidenti sin dai font usati per descrivere la tracklist; ogni canzone richiama il logo di qualche padre del rock, dai Maiden agli Slayer, dai Van Halen ai Metallica, e giù fino ai Judas, i Kiss, gli AC/DC etc. I Flots traboccano di stima, rispetto e riconoscenza per chi ha fatto grande il genere e vogliono tornare all’ovile, come contriti figlioli prodighi.

L’operazione per certi versi assomiglia a quella compiuta proprio quest’anno con l’ultimo omonimo “Flotsam And Jetsam”, disco accolto da lodi e tripudi perché all’insegna di eco passate fortemente radicate nel bienno ’86 – ’88. “High” è un buon lavoro, la band ha una professionalità acquisita innegabile, un songwriting sempre brillante, degli interpreti che presi singolarmente fanno faville, un cantante d’eccezione ed una gran voglia di riscatto. Pezzi di valore non mancano, dalla opener “Final Step”, a “It’s On Me”, da “High Noon” a “Yout Hands”… una scaletta all’interno della quale i cali di intensità sono davvero rari e quasi impercettibili (“Monster”, “Everything”). Indiavolata la cover dei Lard, “Forkboy”. A conti fatti, “High” è in realtà un album leggermente meno creativo ed ispirato dei vituperati “Cuatro” e “High”, episodi magari meno devotamente metal ma di più ampio respiro, e più genuinamente rispettosi di ciò che la band sentiva realmente in punta di penna. Tuttavia da questo momento in poi i Flotsam riprenderanno un cammino più ortodosso, ricordano la lezione ricevuta a proposito dell’appartenenza alla grande (e un po’ talebana) famiglia borchiata. Groove e stile rimarranno elementi distintivi del loro sound.

High” è una dichiarazione d‘amore per la musica e verso il proprio pubblico, un patto che la band non si sente di rompere e che testimonia una vitalità mai doma, come confermano anche i picchi vitali del tracciato verde ritratto in copertina. Avanti e indietro, metal o non metal, i Flotsam hanno sempre mantenuto una integrità di fondo, una qualità ed una dignità che a qualche collega sono venute a mancare nel corso del tempo, magari anche a chi ha venduto camionate e camionate di copie in più, ha fatto doppi e tripli carpiati decisamente più spettacolari, ha riempito l’armadio di capi firmati ma oggi si ritrova col fiato corto ed una logorrea senile galoppante.

Marco Tripodi

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