Recensione: Hourglass

Di Fabio Vellata - 16 Luglio 2013 - 22:50
Hourglass
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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62

Fondati già da qualche anno e con una discreta esperienza da esibire in curriculum, gli imolesi Vicolo Inferno si prospettano nelle vesti di una band dotata di serie qualità strumentali, forti ambizioni ed una buona miscela stilistica di base, potenzialmente in grado di accattivare un pubblico composto in modo indifferente da vecchi appassionati di suoni hard rock, così come da giovani leve, attratte da sfumature moderne ed attitudini contemporanee.

Il gruppo di Igor Piattesi e Maro Campoli, mostra tuttavia una grave carenza “strutturale”, che si rivela determinante nell’impedire alla proposta di segnalarsi come realmente competitiva e qualificata nel confronto con i migliori esponenti del settore: il songwriting, in certi frangenti un po’ deficitario e poco accattivante.
Attestati sulla forma di un rock mai troppo urgente o “dinamitardo”, il quartetto tricolore latita, infatti, proprio nella qualità delle melodie e nel dinamismo stesso delle canzoni. Spesso un pelo “trascinati” e sofferti, i brani presenti nel debut album “Hourglass” lasciano intendere ottime intenzioni ed interessanti possibilità d’insieme, naufragando però nell’atto di centrare l’obiettivo principale rivolto all’ascoltatore. Quello di mantenere desta l’attenzione con un impasto di suoni ed atmosfere in grado di suscitare qualche emozione più profonda ed incisiva di quanto non offerto da un semplice contatto “epidermico”.

A tratti sin troppo monolitico e cristallizzato nello sviluppo di idee di base – spesso, a dire il vero, interessanti – il livello compositivo espresso dal gruppo tricolore indugia talvolta in passaggi eccessivamente statici e senza mordente, privi di una linea melodica che sappia accendere la fantasia del fruitore, spinto piuttosto a perdersi dopo pochi minuti entro una serie di soluzioni che sul medio termine divengono claustrofobiche ed al limite del monotono.
È il caso, a tal proposito, di farci aiutare da un paio di brani in particolare, citando la doppietta centrale “Cold Moon” e “Hangin’ On The Blade”. Gli strumenti ci sono, le chitarre turbinano che è un piacere e Igor Piattesi, con quella voce roca un po’ alla Myles Kennedy, ha il piglio di chi sa perfettamente come condurre il gioco dietro ad un microfono.
Sfortunatamente tuttavia, il ritornello da “mandare a memoria” non arriva, le armonie tese a trasportare emotivamente l’ascoltatore non si concretizzano ed il risultato si appiattisce, purtroppo, sulle forme di una routine che sa di banale e monocorde.

Piacciono gli assolo sfornati con buona tecnica dal bravo Marco Campoli (riusciti in particolare, i passaggi di gran pregio piazzati nella iniziale “Hardesia” e nella polverosa “Tombstone”), convince decisamente la voce di Piattesi e non manca di fornire un buon apporto ritmico la sezione basso/batteria composta da Marco Dazzani ed Alex LaSala.
Senza però, un migliore contributo in sede di mera composizione, gli sforzi rischiano di rimanere in parte vanificati.

Potremmo dire semplicemente che i Vicolo Inferno (nome tratto da un cruento episodio di sangue avvenuto proprio in una strada della città romagnola nel 1504) sono bravi e ci sanno fare molto bene con i rispettivi “attrezzi”, lasciando in sospeso ogni commento su doverose migliorie che paiono evidenti.
Non sbaglieremmo senza alcun dubbio, dando giusto plauso ad una band dotata di buoni fondamentali e sicuro potenziale.
Quando però, l’ennesima ripetizione di ritornello giunge alle orecchie (“Dangerous Dream”? “Hanging On The Blade”? “Stonering”?) risulta inevitabile il far presente ai baldi musicisti che, per sfondare davvero e dare la caccia a qualche pezzo memorabile, è necessario – forse, fondamentale – mostrare più carattere, unito ad una sensibilità per le melodie maggiormente accentuata e concreta.
A quel punto, Alice in Chains, Alter Bridge e Nickelback appariranno vertici un po’ meno irraggiungibili.

Tutto arriverà, ne siamo certi…

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