Recensione: Human

Di Roberto Gelmi - 4 Giugno 2014 - 13:53
Human
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Anno: 2014
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79

I prog-metallers greci Mother of Millions esordiscono con un full-length autoprodotto, dopo un self-titled di quattro tracce uscito nel 2011. Human ha richiesto due anni di lavori, con il mastermind Makis Tsamkosoglou in prima linea, e l’esito è un disco che fa sperare decisamente bene per il futuro.
I cinque ateniesi (tra cui figurano membri dei connazionali Poem) uniscono diverse influenze musicali, che spaziano dal prog. rock, all’heavy, passando per alcune sonorità etniche e un metal atmosferico che può ricordare gli Opeth. Il risultato è un sound sofisticato, ma al contempo accogliente, che valorizza un song-writing da sceneggiatura di film drammatico. La sezione ritmica è granitica, le chitarre a tratti si fanno pesantissime (pur non essendo etichettabili come djent), mentre le parti vocali passano da registri bassi e malinconici a toni alti, vibranti, fino a uno scream mai eccessivamente dilagante. Arricchiscono la proposta dei greci, l’aggiunta di tastiere e percussioni tutt’altro che pleonastiche, oltre che la presenza di sample e un’attenzione ai dettagli minuti.
Human è un concept (diviso in tre fasi/stati) attraverso i meandri bui dell’Uomo contemporaneo, che vive frammentato e percepisce una contnua lacerazione interiore. L’artwork non può non colpire, con un volto iperespressivo che sfuma in sfondi ubrani, ritagli di giornale e un albero spoglio in stile Deadsoul Tribe.

Apre le danze “Orientation”, che, escluso l’intro francamente antipatico, si può considerare un opener convincente, tra sfuriate metal e decelerazioni fulminanti. George Prokopiou al microfono calca troppo le parti aggressive e la produzione non è ottimale, tuttavia la personalità certo non manca.
Propaganda Techniques” inizia come un brano degli O.S.I. di Kevin Moore, poi cresce con un drumwork (doppiato dalle seconde voci) cadenzato da vaghi sentori araboidi e uno scream catartico (che può ricordare la pazzia dei Leprous). In chiusura di brano spazio a un tremolo-picking disturbante che prelude all’avvio di “The Parallel”, che attacca come una mitragliatrice (in passato gli Evergrey si muovevano su questi lidi). Su carillon di tastiera prendono corpo urla dissennate e la traccia termina con un fade-out anonimo.
Rumore d’accendino in testa a “Ignition”, breve interludio (con un sample degno dei Dream Theater di Awake) che parla di depressione e dell’assurda situazione globale attuale, tra accidia e uccisioni all’ordine del giorno. Ancora toni cupi per “Evolving”, con il suo incedere smagato, tra tremolo di chitarra, basso pulsante e drumwork granitico con splash a iosa. Ancora echi theatheriani (“The Mirror”), ma anche sentori di Nevermore. Lo stacco al min. 1:54 sembra preso dagli Opeth di Still Life. Tra le note echeggia un ritornello ambizioso: «Rise, evolve / Expel this distress / Wall of fear / Dissolve repulsion».
A questo invito si collega concettualmente la traccia seguente “Evolved”, che consiste in due minuti di tremolo-picking ossessivo, degno sottofondo di un “sirtaki metal” che annulla le difese dell’ascoltatore e lo catapulta in un tunnel sonoro soffocante, sull’adagio «Stare at the masses».
Riff groovy per “Fire”, che presenta una maggiore ricerca melodica nel refrain, sincero invito alla fede  («Stay I need your silence / Steal my war away / I can’t stay indifference / Don’t put out your faith»). Trova spazio anche una strofa concitata, sulla falsa riga di “Spitfall” dei Pain Of Salvation, e un buon crescendo finale.
Ancora suoni campionati all’inizio di “Loss”: passi, una porta che si apre, un cellulare squilla anonimo e irritante. Suoni soffusi e lisergici, mentre al min. 2:40 si staglia un bell’assolo di chitarra, pur breve. Assente invece lo scream, lungo uno dei brani più atipici del platter. Ottimo l’intro acustico di “Running”, con bonghi, chitarre acustiche e un respiro affannato. Ritroviamo percussioni etniche nella title-track conclusiva. Si ripete la formula che divide, in una sorta di tacito contrappunto, tastiere e chitarre; non mancano, inoltre, certe sonorità stoner opethiane e delay onirici. A metà del quarto minuto brilla un breve assolo basso-batteria, poi riornano gl’intrecci di chitarra saturanti su ritmi più che dilatati, che vivificano strofe tra il poetico e il cripitco («Name me truth, you name me hope” / I’m not in use / A threat that I behold / If only i’d make the waves»).

Nel complesso Human è un album con grandi potenzialità: non ci sono suite e nemmeno assoli petrucciani, ma la vera forza dei greci sta nel creare atmosfere cupe e insinuanti (mimetiche dell’attuale società prossima allo sfacelo?), sempre in sospeso tra progressive tout court e ricerca del nuovo. Un’opera prima invidiabile, ma c’è ancora molta strada da percorrere prima di raggiungere i livelli dei connazionali Need. Di certo la crisi dei nostri tempi può essere foriera di riscatto: i Mother of Millions ne sono prova incarnata.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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