Recensione: Human – The Tales, Human – The Facts

Di Fabio Vellata - 27 Ottobre 2013 - 2:14
Human – The Tales, Human – The Facts
Band: Fughu
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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82

Linguaggio universale quello del Prog Rock.
Dopo averne scoperto radici profonde e molto ben strutturate persino in zone caraibiche con gli affascinanti Anima Mundi, tocca ora alla “Terra della Pampa” darci un saggio di come la ricerca sonora, le composizioni articolate e la perizia tecnica al servizio del rock, abbiano domicilio ormai in ogni parte del globo.

Nati nel corso del 1999 dall’incontro del chitarrista Ariel Bellizio e dal batterista Alejandro Lopez in quel di Buenos Aires, gli argentini Fughu si prospettano come l’avamposto estremo di un genere musicale che ha davvero tratto grande giovamento dalla proverbiale globalizzazione.
Possibilità di crescere acquisendo le lezioni dei grandi maestri, per giovani musicisti desiderosi di maturare, ma anche possibilità di farsi conoscere proponendo il frutto del proprio lavoro in maniera capillare in tutto il mondo. Potere della tecnologia che, nel giro di pochi click, permette di ascoltare e di farsi ascoltare. E magari, di ottenere un pizzico d’attenzione anche dall’altra parte del pianeta, nella lontana, ma alquanto affine, penisola italiana.

Ed eccoli qui dunque, i Fughu, al via nel nostro stereo con la nuova, complessa, opera intitolata “Human – The Tales, Human – The Facts”, un doppio album (o meglio, come preferiscono definirli loro, “due album usciti contemporaneamente”) dai risvolti decisamente complessi e dalla profonda anima prog, ricca di sfumature, di sviluppi da osservare con estrema calma ed un quantitativo infinito di particolari che si assommano gli uni agli altri con il procedere degli ascolti, rivelando il “dipinto” in senso “compiuto”, solo dopo un notevole e paziente lavoro di assimilazione e familiarizzazione.
Dopo un discreto numero di consensi ottenuti con il precedente “Abscence”, uscito nel 2009, ai cinque sudamericani l’idea di fare le cose in grande deve essere piaciuta particolarmente, assumendone con coraggio tutti i rischi derivanti. Musica quindi, dal taglio piuttosto difficile e non proprio per un pubblico ampio.
O per dirla sempre alla loro maniera “nulla che abbia a che vedere con la musica fast food di oggi, i singoli usa e getta e gli MP3 di bassa qualità”.

Onestissimi e sinceri, non c’è dubbio. Soprattutto se considerato che, al primo timido ascolto della loro doppia opera, la sensazione immediata è proprio quella di follia e di una pesantezza di fondo a tratti invincibile. Un dilemma inestricabile che fa balenare l’idea – alla possibilità di un passaggio successivo – di una solenne perdita di tempo, con il conseguente rischio di farsi le prosaiche “due palle così”.
E invece no. Da buoni fan del prog, mai sottovalutare l’assunto che impone, prima di esprimere un giudizio, la completa metabolizzazione di ciò che si ha in cuffia.

Ed anche questa volta, infatti, ciò che appariva brumoso e poco amichevole, si apre ad altre prospettive, rivelando in realtà, un’anima tutt’altro che sgradevole e dozzinale, lasciando trasparire una cura per i dettagli e per la costruzione dei brani e delle sequenze melodiche, assolutamente raffinate e di prim’ordine.
Viene da pensare del resto, che una coppia di icone prog e rock come Jeff Kollman e Damian Wilson, ben difficilmente avrebbe accettato la collaborazione, qualora il progetto offerto fosse stato caratterizzato da valori di scarso livello o basso profilo artistico.

Due cd, due anime differenti: una decisamente dark e crepuscolare, l’altra più aperta a sperimentazioni che, pur non avendo mai alcun afflato solare, lasciano trasparire un po’ più di luce.

Grande tecnica, ovviamente, e preparazione dei singoli che non conosce possibilità di critica; notevoli pure i testi, mai banali ed incentrati spesso su tematiche ad argomentazione mirata, quali il rispetto per l’ambiente, disuguaglianze sociali e, più in generale, su aspetti introspettivi che sondano la profondità della psiche umana nel rapporto con i grandi dubbi generati dal vivere odierno.
Il quadro che ne deriva non è certo “facile” o digeribile: in particolar modo nel secondo album “The Facts”, i toni si fanno drammaticamente pessimistici, assumendo connotazioni dark, plumbee ed opprimenti ben riverberate nel significativo artwork di copertina. Più sardonico ed enigmatico invece, quello di “The Tales”.
Due dischi separati che, tuttavia, meritano di essere assunti come un unicum indivisibile, rivelandosi in più punti come funzionali e complementari.

In meri termini di riferimento stilistico, i Fughu mostrano di aver acquisito ed allineato un grande numero di influenze di vario tipo, tutte sempre e comunque orbitanti nell’ambito prog.
Una certa teatralità alla Queensryche è un’evidenza più che manifesta, cui si aggiungono rimandi a Threshold, Tool, Rush, Pink Floyd (quelli più cupi e caliginosi), Spock’s Beard e King Crimson, spruzzate anni settanta ed una buona tendenza nel rendere i toni talvolta psichedelici. Si aggiunge poi un cantato – ad opera del singer Santiago Bürgi – quasi accostabile alla lirica, tratto singolare di un’opera dalla peculiarità assoluta.

A colpire più di altri, sono eccellenti brani quali “Twisted Mind” ed “Evil Eyes” nel contorto “The Tales”, mentre nell’oscuro “The Facts” sono “Quirk Of Fate” (Damian Wilson alla voce) e “Winter” a spiccare: episodi che dimostrano l’alto livello qualitativo di composizione di cui i Fughu possono disporre, rivelando sensibilità per gli arrangiamenti ed un forte orientamento vero aspetti concettuali dalla forte valenza simbolica.

Un gruppo questi Fughu che, in buona sostanza, dimostra nuovamente di poter competere ad alti livelli, mettendo in mostra tutte quelle che sono le caratteristiche migliori e più ricercate nell’ambito progressive “d’elite”.
Forse la sola mancanza di un pizzico di orecchiabilità in più, potrebbe in parte limitare il potenziale successo di una band da tenere in serissima considerazione.
L’attitudine per la ricercatezza dei particolari, la struttura dei brani ed i fondamentali tecnici messi in campo sono patrimonio da primi della classe: qualora Ariel Bellizio ed i suoi hermanos argentini dovessero mettere a regime anche qualche sprazzo maggiormente accessibile, avremmo per le mani una bomba prog pronta ad esplodere da un momento all’altro.

Sono comunque già bravissimi così. Ed il consiglio di approfondirne la conoscenza, rivolto a tutti gli appassionati è, quindi, assolutamente d’obbligo.

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