Recensione: Humananke

Di Marco Migliorelli - 17 Maggio 2014 - 15:00
Humananke
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Anno: 2014
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Una luna piena e bassa importuna la notte col suo chiarore; prima lascia che la sera s’addensi, domina poi le ore successive. Riflette, presaga, un’inquietudine che va librandosi tersa nella leggerezza del sogno e densa nella letterarietà di un incubo. Di questa luna gli Embrace of Disharmony non fanno mai parola ma quasi ogni nota del loro debut risalta, irrequieta, la natura sub-lunare del loro Humananke. Otto anni di lavoro, troppi, anche per il pendolo di Poe ma quanto basta a presentarsi a noi con un disco ricco, non ridondante; vario, non dispersivo. Debitore di molta, davvero molta buona musica ma libero delle facili catene della noiosa, seppur talentuosa emulazione.

Humananke, ovvero della molteplicità dell’umano, non nega la luce. Non ne ha bisogno…esplora piuttosto la notte dell’immaginazione, una notte con una sua luminosità propria, inquietante, lunare appunto: notte interiore, notte dei mondi. Difficile discernere, nè la musica ci impone questo discrimine; confonderci semmai, questo il suo proposito narrativo. Per farlo ci si avvale di un prog volutamente privo di identità definita(sebbene non sia da escludersi un sincero affetto per i “vecchi” Dream Theater, non quelli di Systematic Chaos, per intenderci): dall’avantgarde lucidamente folle e dominato dei blast beat di Cantiano, batterista di cuore e misura insieme, al prog death dell’ormai noto “Mabool” degli Orphaned Land ma non senza il trasporto ondoso dei moti orchestrali o delle sospensioni corali care agli ultimi Therion.

Diremo allora di una pluralità di filamenti musicali come a tingere lo spazio uditivo di arabeschi. Linea guida, una mano nervosa, folle e spregiudicata, talmente fuori di sé da esser salva dalle spire asfissianti del citazionismo algido e dell’autoreferenzialità accecante. Humananke si presenta infatti con coraggio, nessuno strumento si chiama fuori dal confronto, ciascuno vive il proprio corso sotto il chiarore di una luna mistericamente indefinibile.

In principio erano un pugno di canzoni…

Questo sembra suggerire l’intermezzo suggestivo che quasi spezza, poco oltre metà la prima lunga, torbida, complessa funzione liturgica a nome : Shards of Apocalypse. Un inzio magico.

Potremmo senza alcuna difficoltà parlare del disco attraverso questa sola canzone e non mancar parole. Esplodono poi a cascata una manciata di canzoni arricchite dal deposito degli anni: pazienti lasciti fluviali, sedimenti ai lati delle banchine del tempo. Alle voci infine, seguì, ultima, l’orchestra.
“Oceano e apocalisse”, così è detto, alpha e omega di un viaggio senza veri cali di tensione, sempre ispirato, voluto, lavorato con pazienza di marea: all’apocalisse iniziale rispondono infatti, al termine dell’album, le acque in rivolta del Maelstrom di Poe: un vorago abissale nel quale l’Io è un fragile albero maestro cui aggrapparsi e in qualche modo, Alive, sopravvivere.
Ab nihilo. Edge of Nowhere. E le Moire. Solo alcuni nomi; titolano i capitoli di un quadro narrativo suggestivo. Nulla è il Destino, all’apice di Nessun Luogo. Il destino è uno stato superiore di necessità e Humananke è un disco da sfogliare e ascoltare esponendosi con l’immaginazione. I suoi registri narrativo-musicali sono quelli de “Le Mille e una Notte” e a noi non viene chiesto che d’esserne parte integrante con le nostre stesse visioni.
L’orchestra, si diceva, ultima aggiunta a cura del chitarrista Matteo Salvarezza, ha il ruolo di irrobustire una cornice narrativa già carica nei testi così come nella linea principale delle composizioni delle singole canzoni. Ha inoltre il compito, eccellentemente adempiuto, di preparare la tela musicale per quella che si rivela essere una vera passione degli EoD, un tarlo: interruzioni e ripartenze strumentali su tracce musicali tenui, sia acustico-corali che più classicamente votate al solo di chitarra.
Ecco è allora qui, in questi squarci di magia visionaria, dei quali gli EoD son preda, che il progressive sfuma nell’avantgarde, quello caro agli Arcturus, divoratori di tasti d’avorio. Impossibile, oltre che irriguardoso, sarebbe non sottolineare il tratto ispirato della Coltrè al pianoforte.
Un esempio? By the Hands of the Moirai: ciò che fu, che è e che sarà. Questa la strumentale che, testimone un fraseggio di violini, introduce un passaggio di pianoforte che non sfigurerebbe all’interno di un brano di Ludovico Einaudi.
Altro brano strumentale: Ab nihilo. Breve, intensa e duale esperienza. Duale perchè  ad una prima lunga chitarra, figlia della storica perla dei Queen, “Bijou”, risponde, inatteso, un pianoforte i cui suoni sembrano intrecciati alle mani creative di Danny Elfman, compositore caro a Tim Burton.
Due composizioni per soli strumenti, da sole già sottolineano la poliedricità dei rimandi musicali. Quando scrivo che gli EoD arrivano ad esporsi completamente con i loro strumenti, intendo dire che non dissimulano le loro influenze musicali tanto quanto non esitano a manipolarle, fino a confonderle, smembrarle per poi ricomporle in un discorso compositivo personale.

Le voci, ben tre (se si esclude l’ottima partecipazione di Kobi Farhi degli Orphaned Land), soddisfano con personalità questa fondamentale esigenza narrativa dell’album, la cui cornice è creata dalle orchestrazioni. Alla voce “storica” di Gloria Zanotti si affiancano, inedite, le harsh vocals di Salvarezza -una vera sorpresa!-,  piene e viscerali che il chitarrista ha maturato negli ultimi anni; e poi la voce atipica di Paolo Caiti: positivamente “atipica” laddove introduce un cantato medievale, immediatamente distinguibile, da subito ponte verso alcune soluzioni musicali del disco molto vicine al lato più operistico dei Therion di ‘Gothic Kabbalah’. Quel che si apprezza delle voci di Gloria e Paolo è il loro non esser parte di un quadro di riferimento vocale di genere così come i grandi nomi imporrebbero. ‘Void’, la canzone che più potremmo inquadrare all’interno di un genere: la ballata, anche nelle sue linee vocali pare voglia marcare le peculiarità vocali dei due cantanti. La stessa voce di Gloria, tende spesso a sporcarsi ed arrochirsi, come a farsi carico di una vis narrativa totale, legata profondamente ai testi. Per questo anche insisto nel presentare questo disco come un lavoro di musica-narrativa-immagine.

Una sciarada di canzoni…

“In the haze of an ancestral recall of what will be/ silence filled with a thousand voices”
Migliaia di voci e un labirinto nella foschia. Questo è Humananke. Non seguire le canzoni, non affidarsi alla logica interna del loro disporsi all’interno del disco, significa mancarne la visione d’insieme.
Shardes of Apocalypse apre con una deflagrazione, sprigiona musica ininterrottamente per dieci lunghi minuti. C’è spazio per tutti gli strumenti e tutte le voci. Il taglio introduttivo è cinematografico, operistico, prelude all’immaginario. I cori allargano i confini mentali, predispongono all’entrata degli strumenti. Pain, la prima parola svetta solitaria nell’ugola di Salvarezza. Alpha. Le risponde dall’ultima traccia l’ultima sua parola, omega. Alive. A chiudere il disco.
L’opener di Humananke è già indice di tutto quanto andremo ad ascoltare: un prog mai fine a sé stesso, in cui generosità e virtuosismo si amalgamano nella realizzazione di una perdurante melodia che avvolge i brani e ne fa nostro nutrimento.
The darkest hour/ is hanging over us/ what we left behind is lost in time
Si annuncia il primo intermezzo di una lunga serie. Gli Eod amano frangere le loro canzoni e così accade che per alcuni secondi tutti recitano altre parti, differenti; il pianoforte è spesso il suono-segnale di questo cambio di scena. Cantiano alla batteria rifinisce i suoni su ritmiche di precisione ed è una vera gioia sentire il basso di Leonardo Barcaroli: voce viva, presente, schietta e tale da chiudere il pezzo.
Ab nihilo è una tregua voluta, breve come sua natura impone. Abbiamo parlato del compositore Danny Elfman perchè quello che questo piccolo gioiello richiama agli occhi è l’universo Burtoniano (ludicamente ispiratore della colonna sonora di un famoso videogame “Medievil”). Ab Nihilo è tregua ma anche preludio, o le parole  poste a memoria delle ragioni del brano stesso non vorrebbero, come è, esser frutto della penna di Michael Moorcock, padre-scrittore del famoso Elric di Melnibonè “eternally the champion of some unknown cause”.
The Eternal Champion spiazza perché,  pur fedele ad una visione musicale cinematografico-progressiva, nel chorus ed in una sua necessaria epicità dovuta al tema, è quanto l’album ha di più riconoscibile come un tributo all’epic metal. Inserti narrativi tradizionali carezzati da lievi arpeggi, batteria e basso mai imbrigliati nella linearità ma più sottomessi al fine di realizzare un pezzo veloce e tirato. Epico ed aulico allo stesso tempo. Non fosse per la conclusione spazzata dalle harsh vocals (il vecchio Akerfeldt avrebbe apprezzato?) e dalla batteria furente, potremmo parlare di un incontro felice fra i Domine ed i Symphony X.
Deadly Stormbringer / slayer of those I/ loved/ you claimed their souls/ my will gives up
Identity riprende lo stesso conflitto di Elric. Poco importa se sia ancora lui a parlare o chi dopo di lui: il filo di Atropo non ha termine.
Lost in myself and forsaken to my destiny/ tortured inside now I fumble for my sanity/ cries of hate echo deep burning and chasing me endlessly
Il ritmo della canzone è serrato, sostenuto. Il basso innalza mura e intreccia alla merlatura del drumming le voci. La voce di Zanotti si scinde, in un primo tempo, pulita, duetta con quella di Caiti. Successivamente va sporcandosi, indurendosi fino ad incontrare lo scream di Salvarezza  nel finale, dopo un fulminante solo di Rafael Bittencourt, primo ospite noto del disco, si abbandona al puro growl.
Permane un’atmosfera a tratti d’allucinazione: all’infuriare degli strumenti non cedono sottendimenti melodici, orchestrali, sonorità più lente che anche i passaggi più ferali, pur prominenti, forti e ben marcati dall’ottima produzione, non estinguono.
Edge of Nowhere merita un discorso a parte. Perchè arriva a metà del disco ed è, nelle parole del suo titolo: “La Sommintà del Non-Luogo”. Cos’è allora? è il Nihil, l’occhio del Moskoe Strom di Poe, il culmine dell’Apocalisse?
Sicuramente è un brano che sotto il profilo musicale gli Orphaned Land potrebbero essere orgogliosi di avere all’interno di un loro disco. Chi ha sofferto la recente seppur significante ed ispirata virata heavy degli israeliani, potrà tornare a dissetarsi alla fonte di questa canzone e non soltanto per l’eccellente interpretazione di Kobi Farhi. La voce del singer degli Orphaned Land lascia ovviamente una forte impronta suggestiva sul brano ma a poco varrebbe senza la poliedricità dello stesso: si lascia prendere all’inizio come un brano orientaleggiante. Nulla di nuovo o inedito. Questo tuttavia accade perchè il tessuto orientale del pezzo è quanto ci è più familiare. Immediatamente fruibile, tende a celare altre caratteristiche della composizione: la spontanea sintonia fra la voce di Gloria e quella di Kobi e come le loro due voci vadano ad intrecciarsi al piano fino a dar sfogo melodico ad uno dei tanti solo di chitarra del disco, qui letteralmente arricchito dai synth di Francesco Bianchi e dal basso di Mike Lepond (Symphony X): un solo in pieno ludus di raffinatezze con la batteria di Cantiano.
Ecco, Edge of Nowhere è un brano raffinato. Difficile individuare con sicurezza, all’interno di un disco complesso, il “brano raffinato”. Diremo allora che è il manifesto implicito di una raffinatezza comune a tutto Humananke.
Ricercatezza che come materia entropica si fonde nell’energia di un massiccio lavoro di chitarra. La chitarra di Salvarezza vive, respira della struttura stessa di questo disco; è in simbiosi, è entropia laddove nel caos creativo di Humananke impone l’ordine folle dei suoi solos, delle sue cascate sonore.
Dirge on a Soul Staring at the Stars incede quasi con la solennità della celebre “Danza dei Cavalieri” di Prokofiev. Spezza nuovamente l’atmosfera creata da Edge of Nowhere ed introduce alla seconda parte del disco.
Nuovamente un brano lungo, il secondo. Resta impresso per quello scandire di campane che spesso la batteria riprende, marziale e la chitarra illanguidisce in struggimenti. Chiare e furenti derive avantgarde alleggeriscono  l’ossatura progressiva della canzone. Là dove la voce intesse la tela, il blast beat disfa. Le voci, dure e rudi all’unisono, avviano, in un tripudio di batteria, al finale teatrale, tragico ed enigmatico.
Dirge sorprende per un punto: la lunghezza. Non si avverte che in incipit. L’accelerazione di cui è preda irredenta nella sua seconda parte fa brillare il tempo, irrimediabilmente fino a precipitarlo fra le mani sapienti delle Moire.
Gabriele Caselli degli Eldritch, con un solo deciso e scoppiettante di synth, impreziosisce un brano elegante, affidato ad orchestrazioni e pianoforte:
By the Hands of the Moirai. Diversi i cambi di atmosfera. Potremmo suggestivamente individuarne uno per ciascuna delle tre Moire. Lascio ai cultori della noia una qualche divisione matematica, sempre che sia possibile, di questi spazi musicali o l’individuazione di un eventuale ordine. Quel che è dato a ognuno di noi è il poter ricercare, personalmente, fra i vari momenti di questa elegante strumentale, dove esattamente sentiamo parlarci Cloto, o Lachesi, o Atropo.
Void, illanguidisce. L’abbiamo detto, il brano è per stessa ammissione degli Eod, quanto di più vicino c’è allo stile della ballata. La Lentezza è in realtà un pretesto per ricondurre la musica per spazi cristallini che gli strumenti tornano ad abitare con discrezione, preservando la luce dei piccoli suoni, dei riverberi, dei singoli arpeggi.
L’immancabile inquietante ed al contempo struggente, lunga apparizione del pianoforte smuove queste acque e innalza la canzone in progressione , complice un ispirato crescendo di chitarra che solo la voce di Gloria, tenue e sospesa, sostenuta da qualche timido arpeggio osa interrompere, nel finale.
A Descent into the Maelström. L’oceano infine. L’omega.
Old man, sea man tell me why we’re on the edge of this high crag
to the right and left there lay outstretched
black cliffs lashed by the sea…
La conclusione spetta a chi dell’inquietudine ha fatto verbo. Edgar Allan Poe, nella celebre novella “Una discesa nel Maelström”. Uno dei brani meno recenti degli Eod, uno dei più rappresentativi, per chi scrive un piccolo gioiello. Poe è una sfida sul piano narrativo così come sul piano musicale laddove, essendo l’autore feticcio del genere metal, il rischio è quello di una resa impersonale delle sue perle letterarie. Non è questo il caso, fortunatamente.
Il Moskoe Strom, questo enorme vortice abissale d’acque mulinanti si trasforma in tirate avantgarde mentre le voci si inseguono come gorghi e serpentine marine. Le harsh di Matteo si scagliano fra scream e growl pieno, la voce femminile soccombe dopo il primo cadenzato già ruggente incedere: A Descent…risulta interessante anche per come sono costruite le linee vocali, “a incastro” e sempre a tener viva la tensione strofica del pezzo.
Chicca inedita il finale, con un giro ricorsivo di pianoforte che ha il sentore reale delle acque ancor schiumanti pur se esauste dopo un eccezionale evento marino.
Il disco chiude su questo giro di pianoforte, sottese le onde. Impossibile non imprimerlo nella memoria, in special modo se come chi scrive, si è amanti di Poe e di questa novella.

Ho cercato invano di evitare la sequenza narrativa delle canzoni ma come ho già detto, l’unico modo per uscire da questo labirinto era seguire la traccia messa a disposizione: l’ascolto sequenziale.
Ho anche taciuto un aspetto importantissimo: il gran lavoro di produzione, missaggio, registrazione  di Humananke. Sia ai Finnvox Studios che negli Outer Sound Studios di Peppe Orlando (Novembre), i suoni sono stati lavorati con cura professionale.

Il disco che la nostra My Kingdom Music ha fatto suo è un lavoro di elevata qualità sotto il profilo dei suoni, nè sarebbe potuto essere altrimenti: data la ricchezza delle orchestrazioni, con una produzione scarsa sarebbe stato molto difficile mantenere vivi e pieni i suoni degli strumenti principali (rischiando di infiacchire il disco…un po’ come accadde al bello e dannato “A night at the opera” degli Blind Guardian). Lo stesso discorso è valido per le voci: ambire ad un intreccio di tre differenti linee vocali (pur se non in maniera troppo complessa come gli In Tormentata Quiete, che han fatto di questi intrecci un preciso segno distintivo),  senza un missaggio professionale, avrebbe spacciato il disco nonostante l’ottima qualità dei brani e dei loro esecutori.

Gli ospiti infine. Farhi, Bittencourt, Lepond e Caselli non sono chiamati implicitamente a riempire lacune compositive o a salvare brani piatti potenzialmente noiosi, come purtroppo può accadere. Prima di essere contattati, sono stati “amati” per quel che fanno nelle loro band di origine. Sono stati “osservati e metabolizzati”. Questo significa che le canzoni cui ha preso parte sono esse stesse parte “attiva” di una sinergia. Darsi è reciproco, ed i brani coinvolti non si limitano a prender vita impersonalmente-passivamente solo grazie al tocco magico dello special guest.

Humananke è il canto della necessità e del tempo; un album barocco per la pluralità di stili e immagini. La sfida consisteva nel non perdersi, negli anni come nella complessità del lavoro intrapreso. Decisivo è stato l’aver vissuto le canzoni prima ancora di “stenderle” su un disco e farne un’opera destinata all’ascolto solitario. Ecco forse la principale chiave di volta di questo esordio: per quanto complessi e arricchiti di fregi narrativi, lo studio di registrazione non ha mai compromesso la freschezza dei brani. Quasi tutti sono stati per diversi anni vissuti sul palco.
Erano già sangue prima ancora di dar vita al corpo di Humananke. Cos’erano in questa vita prima della vita, ora sono. E saranno.

La schiuma e l’arcobaleno a poco a poco dileguarono, e il fondo del baratro parve lentamente sollevarsi. Il cielo era limpido, il vento era caduto e la luna piena tramontava radiosa a ponente, quando mi ritrovai alla superficie dell’oceano…” (E.A.Poe)

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