Recensione: I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening

Di Daniele Ruggiero - 31 Marzo 2017 - 7:00
I Thought There Was The Sun Awaiting My Awakening
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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80

I Diĝir Gidim potrebbero essere due occulti sacerdoti venuti dallo spazio, con la missione di dissotterrare le origini storiche del genere umano. 

Poeticamente ispirata e priva di nazionalità, la band innalza il proprio debut album sulle mistiche macerie della Mesopotamia che fu la culla della prima civiltà urbana: i Sumeri. La mitologia sumera avvolge infatti, come un manto di seta, un percorso trascendentale, scritto su quattro tavole antiche, che si completa in poco meno di cinquanta minuti.

“I Thought There Was The Sun Awaiting My Awakening” è il titolo di un rituale piuttosto complesso che, come un ago rovente, penetra il pesante e spesso tessuto black metal ricamandolo con bagliori esoterici. La matassa di suoni è densa ed intricata: alterazioni melodiche e cerimoniali si aggrovigliano a ritmi indemoniati che compongono una sorta di evocazione sonora, a tratti inquietante.

Un’opera che risveglia gli spettri incatenati nella mente buia dei due ideatori: Lalartu e Utanapištim Ziusudra. Il primo è il padre delle divine scritture, colui che parla agli adepti mediante scream ruvidi e taglienti, alternati a sezioni corali e parti completamente clean. Il secondo è il compositore delle orchestrazioni enigmatiche plasmate dalle sue stesse mani di abile polistrumentista. Il duo mette in piedi uno spettacolo maestoso intriso di estenuanti colpi di scena. Le contrastanti rappresentazioni duellano sulle vette acuminate di ritmi efferati, per poi inabissarsi nell’angoscia di una voragine ovattata senza via d’uscita.

Il tempio dei Diĝir Gidim è adornato da sfumature astrali e riferimenti divini illuminati dalla fiamma verde di ‘The Revelation of The Wandering’. Il primo capitolo dell’album rievoca atmosfere ancestrali scolpite su diverse varietà sonore. Gli impeti violenti vengono arginati da ritmi più cupi e psichedelici, mentre le urla abrasive si lasciano levigare da brevi sezioni corali che contribuiscono a migliorare la percezione di ritualità contenuta nel progetto. Sulla stessa scia, fredda e terrificante, prende forma un dialogo spirituale: ‘Conversing with The Ethereal’. Nell’arida terra di questa preghiera ermetica, dai toni pesanti e taglienti, si imprecano le antiche divinità a trasformare sole e luna in lacrime nelle quali annegano le nostre anime.

‘The Glow Inside The Shell’ è un’estasi di totale smarrimento nella quale rimbombano cadenze sonore che, come sanguisughe infernali, prosciugano la mente lasciandola in balia di un vuoto alieno. Il brano è una sorta di ipnosi malvagia caratterizzata da accelerazioni improvvise, trame allucinogene ed una voce che sembra provenire da un’altra dimensione.

‘The Eye looks through The Veils of Unconsciousness’ è l’ultimo sguardo maligno che gli occulti reverendi rivolgono ai comuni mortali, un incantesimo che puzza di maledizione. Dissonanze vibranti e ritmi caustici conducono la mente in un incubo vorticoso che decapita l’orientamento e spegne ogni riflesso di salvezza. La speranza affonda tristemente nel melodico finale: un suono simile ad un carillon che accompagna l’anima lungo il sentiero del sonno eterno.

É dunque un esordio molto affascinante quello dei Diĝir Gidim, ispirato ad un black metal moderno come quello dei francesi Deathspell Omega. Un disco ricco di notevoli ispirazioni sonore, venuto alla luce dalle sabbie antiche della storia grazie alla meticolosità di due misteriosi archeologi dell’occulto.

Scoperta sensazionale.

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