Recensione: I Will Not Break [EP]

Di Roberto Gelmi - 1 Marzo 2014 - 20:12
I Will Not Break [EP]
Band: James Labrie
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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40

Come rovinare ex post un album tutto sommato convincete: così va considerata l’inutilità del digital EP appena uscito per Inside Out e prodotto da Matt Guillory, che, per una volta, intende manifestare chiaramente la sua propensione per la musica house e dance.

Se “Impermament Resonance” aveva risollevato le sorti del LaBrie solista dopo il mezzo passo falso di “Static Impulse” (2010), con questa trovata meramente commerciale il cantante canadese sembra non curarsi di mantenere una certa reputazione qualitativa.

Opener dell’EP, il singolo “I Will not Break” (brano conclusivo dell’ultimo studio album) si lascia ascoltare, nella sua miscela di melodia, ritmi granitici e drumwork chirurgico. Forse meritava una posizione di maggiore prestigio in scaletta nel full-length, ma che dire allora di un brano come “Back on the ground” (vero potenziale singolo d’applausi)? Stesso discorso per le due tracce seguenti, già bonus-track nella versione europea di “Impermanent Resonance”.
“Unraveling” dipana una forma canzone non troppo complessa e l’arpeggio acustico inziale si lascia ascoltare come felice Leitmotiv. “Why” attacca con una rullata al fulmicotone e scale di basso a mille, per proseguire tra controcanti in scream e tastiere atmosferiche. Refrain ipermelodico, ma un filo scontato. James canta su registri a lui ottimali, senza sforzo e buona estensione vocale. Marco Sfogli è ugualmente bravo in fase ritmica che solistica, ma manca un po’ di personalità (non solo perché suona una Music Man).

Fin qui, niente d’inedito in assoluto, può starci per un EP. Il peggio inizia con la manciata di demo-version e brani remixati che attende al varco l’ascoltatore. La toccante ballad “Coming Home”, riproposta con un discreto arrangiamento di chitarra acustica, perde certe tinte sognanti rispetto alla versione originale e risulta un poco stucchevole, ma i danni vengono limitati.

Orribile, invece, la riproposizione di “Jekyll or Hide”, tra i brani meno convincenti di “Static Impulse” (e bonustrack del platter del 2010), con Peter Wildoer al microfono. Ritroviamo il batterista dei Darkane come cantante anche nel demo di “Just watch me”: la sua prova è in questo caso leggermente migliore, ma mi domando che senso abbia proporre tali “pseudo-cover” sotto il monicker James LaBrie
Stendiamo un velo pietoso, infine, sul trittico di canzoni (ancora tratte da “Static Impulse”) remixate in versione dubstep-dance (con profluvio di “cassa dritta” e affini). Il buon Devin Townsend (e la sua passione per la musica ambient) e gli O.S.I. possiamo comprenderli, ma da LaBrie (o dovremmo dire Guillory?) una trovata simile proprio non è accettabile. Tra il dissacrante e l’abominio puro.

In definitiva, EP a dir poco pleonastico e quasi offensivo per le orecchie di metallari più e meno tolleranti. Acquisto sconsigliato d’inizio anno.

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