Recensione: II

Di Milo Casotti - 26 Luglio 2013 - 0:11
II
Band: King Kobra
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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80

Certe band sono davvero sfortunate.
Potrebbe apparire un’affermazione un po’ patetica, ma mai come in questo caso possiamo individuare i contorni di un gruppo ingiustamente sottovalutato e troppo spesso messo in disparte, soprattutto se il paragone viene offerto relazionandosi con i circuiti del grande hard rock internazionale.

Loro sono i King Kobra, e l’ultimo CD di una carriera lunga e difficile, s’intitola “II“.
Un “II” che – come ovvio – non indica il secondo disco prodotto, ma piuttosto il secondo capitolo discografico dopo la rinascita del 2011, suggellata con l’omonimo (buon) album, uscito per Frontiers Records.

I King Kobra si presentarono sin dal debutto, in spregio ad una fama mai troppo illustre e diffusa, come una band di tutto rispetto con nulla da invidiare ad altre più blasonate. Fondati da Carmine Appice (Vanilla Fudge, Rod Stewart, Cactus, Beck, Bogert & Appice, e molti altri) ed esordienti nel lontano 1985, già proprio con il primo LP furono in grado di dare alle stampe una perla di rara bellezza intitolata “Ready to Strike”. Un condensato di glorioso Hard Rock melodico in cui risaltava  – tra gli altri  – la voce  del celebre cantante Mark Free, da sempre considerato uno degli interpreti di maggior valore ed espressività del settore.

Il secondo LP del 1986 “Thrill of a Lifetime”, segnò invece un avvicinamento alle sonorità più ammorbidite dell’AOR radiofonico, deludendo in parte alcuni fan della prima ora, affascinati dalle eleganti asperità dell’esordio. Un momento topico e determinante.
Successivamente, infatti, i King Kobra cambiarono formazione, perdendo le grandi vocals di Mark Free, deciso ad intraprendere la carriera solista. Con tutta probabilità, il destino del gruppo svoltò proprio qui, incagliandosi letteralmente per causa della volubilità dello stesso Free. Un episodio che, aggiunto a scelte sbagliate (soprattutto nella successiva selezione dei musicisti) ad una distribuzione non proprio capillare e ad una cattiva promozione (si vocifera che all’epoca i King Kobra fossero arrivati al punto da non riuscire nemmeno a coprire le spese sostenute per organizzare i tour di date live), costrinsero la creatura di Appice ad un mesto ritorno nell’ underground e nel semi anonimato, dopo una sola stagione di effimera gloria.
Un vero peccato se considerato il valore di “Ready to Strike” e “Thrill of a Lifetime”, due album di grandissimo pregio, lontani dal poter essere paragonati a tante uscite banali disperse nello sconfinato mondo dell’eldorado anni ’80. Una coppia di release di grande fascino per un ensemble eccellente, destinato a rivivere in una forma del tutto diversa solo molti anni dopo.

I King Kobra risorgono nel 2011, portando alla luce un nuovo cd (questa volta, dopo quasi venticinque anni, non è più l’amato vinile il supporto di riferimento!) dal significativo titolo omonimo. Una scelta precisa, sintomatica ed “illuminata”, quasi a voler battezzare con il “self-title” una nuova fase nell’esistenza della band che sa di rinascita.
È il grande Paul Shortino (Rough Cutt, Quiet Riot) – esperto cantante dalla voce di carta vetro e dall’espressività strabiliante – a raccogliere un’eredità ponderosa e difficile, gestibile probabilmente solo mediante una grande dose di talento, mista ad inusitata classe e profonda esperienza. Tutte doti di cui il potente singer californiano fa sfoggio da sempre, mostrandosi versatile interprete sia nei pezzi più hard che nelle ballad maggiormente zuccherose e sentite.

Ed eccoci nel 2013: King Kobra – “II”.
Il percorso, finalmente, pare aver trovato continuità stilistica e base stabile su cui prosperare. Il nuovo album, uscito pochi giorni fa ancora per Frontiers, segue esattamente la scia del precedente, facendosi apprezzare per le medesime caratteristiche riscontrate nell’episodio targato 2011.
La partenza affidata al fischio di un treno che corre sulle rotaie in direzione dell’opener “Hell On Wheels”, annuncia un disco di puro e possente hard rock, nettare prelibato per le orecchie instancabili di tutti gli appassionati di suoni ruvidi, corposi e passionali.
Promessa mantenuta: “Knock ‘Em Dead”, con quel riff che rimane stampato in testa, “Have a Good Time”, primo singolo orecchiabile, ed il boogie incalzante dal ritmo scatenato di  “The Ballad of Johnny Rod” (bello l’incipit “vissuto”, con Shortino che chiede del fuoco a un amico per accendere una sigaretta), decretano una prima parte dai contorni torridi e scalcianti, intrisi di hard rock nella sua dimensione più verace e genuina.

L’ugola selvaggia ed alcolica di Shortino si mostra poi in grande spolvero nella ballad “Take Me Back”: Paul mette sul piatto tutte le qualità di cantante Rock dal cuore dolce, evidenziando come la vecchia “scuola” sia, ad oggi, ancora la migliore in termini di pathos e capacità di coinvolgimento. Facile infine rintracciare spunti glam/rock di grandi band del passato come WhiteSnake e Aerosmith, in brani quali “Got It Comin’”, “When the Hammer Comes Down”, “Running Wild”, “Deep River” e “Don’t Keep Me Waiting”. Come a dire che, il tempo potrà pure passare ed il 1985 essere un lontano ricordo, ma le proprie radici rimarranno sempre scolpite ad imperitura memoria, impossibili da cancellare in alcun modo.
Non da ultimo, piacevoli anche i due mid-tempo molto melodici, piazzati strategicamente forse per ammorbidire un pizzico la scorza e l’aroma di un disco duro ed intransigente come un whisky invecchiato: “Crunch” e “We Go Round”.

Insomma un album davvero buono.
Musicisti all’altezza delle aspettative (e non poteva essere diversamente) e grande prova di Appice, che nel drumming di “II” ricorda vagamente il fratello, pur senza eseguirne le classiche rullate in drag: sempre incisivo, semplice e potente.
La voce di Shortino non fa rimpiangere quella di Free, anche se molto diversa, mentre il resto del gruppo, composto dalla storica coppia di asce Mick Sweda e David Michael-Philips e dal bassista Johnny Rod, non perde colpi, assestando una performance sostanziosa, carica di grinta e passione pur senza eccessi di audacia.
Un platter dunque che, fatti salvi un paio di inevitabili filler, si lascia apprezzare nella veste di un buonissimo prodotto a base di Hard Rock/Glam dall’inconfondibile ed inebriante sapore “eighties”. Trovata la stabilità, radunate le energie e certificato un estro artistico ancora più che dignitoso, ai King Kobra non resta che perseverare, nel tentativo di riacciuffare un minimo di quella gloria che il fato ha improvvidamente nascosto.

Sicuramente Appice, Shortino e compari, avranno ancora qualcosa da dire in futuro…

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