Recensione: III

Di Tiziano Marasco - 3 Luglio 2016 - 0:00
III
Band: Landskap
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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73

Vedi una band di nome Landskap che esce sotto l’egida della nostra Black Widow e subito pensi ad un gruppo prog scandinavo. Svedese, norvegese, poco importa, abbiamo preso un granchio. I Landskap son un gruppo di Londra, la Black Widow tuttavia non inganna. Per la precisione, si tratta, come anche il titolo III, lascia intuire, di un prog piuttosto ruvido, a forti tinte psichedeliche con qualche sferzata di blues, come insegnano certi Led Zeppeling.

Cinque tracce in tutto, cinque cavalcate all’indietro negli anni settanta, per quello che, senza mezzi termini, può essere definito regressive. Ma c’è regressive e regressive, c’è modo e modo di buttare languide occhiate nostalgiche al passato. I Landskap ricopiano gli stilemi di quella decade in modo assai pedissequo, lo fanno però con grande passione e grande cognizione di causa.

Non cedono nell’esercizio di stile mero a sé stesso, anzi, quello che ci troviamo davanti è un pugno di tracce vibranti, piene di carica e di groove. Oltre all’ottima sezione ritmica, che giostra abbastanza bene tra cambi di velocità non eclatanti, ma solidi e decisi, un grosso applauso va al titolare delle tastiere Kostas Panagiotou, estremamente abile a dare acidità a diversi passaggi dell’album grazie ad un ottimo uso di organi e mellotron.

I pezzi, pur non avendo nemmeno un milligrammo di innovazione, sono vivi e si tengono in piedi grazie ad un songwriting solido ed estremamente ben costruito, sicché tutti i pezzi sono facili da memorizzare a dispetto della complessità stilistica. In questo senso, la opener è un magnifico esempio di climax sonoro e compositivo, si stende per oltre sei minuti e mezzo, trainata dal crescendo ritmico e dalla voce southern di Jake Herding. Ancora meglio l’elettrica The Hand that takes Away, un pezzo che sembra davvero uscito dagli anni settanta, senza una sbavatura per tutti i sette minuti di durata. Per non parlare della grande altalena della conclusiva Mask of Apathy.

Un prodotto adatto a tutti gli amanti del regressive, e in tale categoria ci sentiamo di inserire anche i fan dei nuovi Opeth. E magari gli stessi Opeth, che traggano un po’ di ispirazione per quanto concerne il “copiare con stile e metterci della verve”.

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