Recensione: III – Angst

Di Alberto Fittarelli - 2 Marzo 2003 - 0:00
III – Angst
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Anno: 2002
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80

Arrivano al terzo capitolo anche gli svedesi Shining, band rivelazione dell’ormai ristretto underground black metal nordico: lo fanno con questo III – Angst, un disco inquietante ed abbastanza personale, che riprende le coordinate degli albums precedenti portandole avanti ancora di un passo.

L’album è composto da 6 lunghe canzoni, mai velocissime e caratterizzate da un’atmosfera opprimente, a mio parere più depressiva che malvagia, e che si discosta quindi dai canoni tipici del black scandinavo: una particolarità tipica della Selbstmord Services, la label che li ha lanciati per poi passarli alla nostrana Avantgarde. I riff vanno a riprendere nella base le bands che hanno fatto la primissima storia del genere, Darkthrone su tutti, con l’aggiunta di chitarre soliste responsabili di lunghi e lancinanti passaggi molto simili a quanto proposto dai vecchi Katatonia e su certe primordiali cose dei Paradise Lost.

L’opener Mörda dig Själv… ci si presenta subito come un pezzo lento e dal flavour autunnale, valorizzato ottimamente da una scelta di suoni davvero buona; anche quando successivamente i tempi si velocizzano è possibile sentire il lavoro in perfetto stile doom del bassista Phil Carone, davvero fondamentale nel mantenere plumbee le atmosfere del pezzo. La voce di Kvarforth ricorda moltissimo quella di Satyr, come a volte quella utilizzata sull’unico album dei Kvist, e possiamo notare anche il preciso seppur semplicissimo drumming di Hellhammer, la cui onnipresenza sta ormai assumendo connotazioni soprannaturali! A differenza di quanto da lui proposto nelle sue innumerevoli altre bands, lo storico batterista si limita qui a sorreggere degnamente le elementari strutture delle canzoni, facendosi riconoscere qua e là solo per qualche movimento particolare sui piatti.
L’andatura dell’album prosegue ipnotica, tra la ripetitività di Svart Industriell Olycka e le influenze thrash di Submit to self-destruction, pezzo simbolo del disco nonchè, probabilmente, l’episodio migliore. E’ poi l’intermezzo atmosferico di Till minne av daghen, con un clavicembalo che si staglia su suoni ambient alla Raison d’Etre, a creare una pausa carica di tensione in attesa dell’ultimo capitolo, Fields of Faceless, forse ancora più gelida dei pezzi precedenti.

Un ottimo disco quindi, una prova importante che il feeling dei primi anni ’90 sopravvive e muta nell’underground più buio grazie ad una ristretta cerchia di musicisti che, senza inventare nulla, riescono ad infondere note personali ad un sound da tempo spentosi nella banalità. Una band che si ama o si odia, che vi ricorderà più di una volta il famigerato Burzum, soprattutto per l’estremismo dei concetti espressi e per il mood di fondo della musica proposta, ma una band che sa farsi davvero apprezzare come ottima realtà per tutti gli aficionados.

Tracklist:

1. Mörda Dig Själv…
2. Svart Industriell Olycka
3. Självdestruktivitetens Emissarie
4. Submit To Self-destruction
5. Till Minne Av Daghen
6. Fields Of Faceless

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