Recensione: Illusion Effect

Di Roberto Gelmi - 10 Dicembre 2014 - 14:00
Illusion Effect
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
50

Ai Closed Circle, giovane band formatasi nel 2008, tutto si può imputare, tranne la mancanza di ambizione. Il terzetto, fautore di un prog. metal strumentale cervellotico, punta, infatti, su una chiarezza di idee che lascia poco da interpretare. A detta del bassista Felipe Durli: «This record represents the strong urge to do whatever come to your mind to try different things and hope that people will like it». (Quest’album rappresenta la necessità di proporre qualunque cosa venga in mente, per provare cose innovative, sperando che la gente le apprezzi).
Gli fa eco il chitarrista Doug Weiand, che se ne esce così nel booklet: «In my opinion a good thing to think about is how we’re gonna use the time we have: besides that, one very important question comes to mind: what do you really wanna fell?» (A mio avviso una cosa su cui riflettere è come stiamo per impiegare il tempo che abbiamo: di conseguenza, viene in mente una cosa altrettanto importante: come vuoi davvero sentirti?).
Completa libertà creativa e grande perizia tecnica pregressa, possono bastare per creare dell’arte nel vero senso della parola?
Ahimè no, il disco in questione si presenta in modo invitante, con un artwork surreale, che richiama quello di Impermanent Resonance di James LaBrie (e gli “heavy metal hamsters” targati Helloween), ma l’ironia e la giocosità intrinseca al vero progressive è solo un’apparenza (che ritorna nei curiosi titoli in tracklist): nei cinquanta minuti del disco si manifesta solo un continuo rovello virtuosistico, privo di eclettismo.
La prima traccia, “Devil Takes a Ride”, è programmatica e fa capire come suonerà il full-length nel suo sovrabbondante minutaggio. Colpisce da subito l’impianto chitarristico droppato, con chiari rimandi al riffing sporco di “The Dark Eternal Night” e “A Nightmare To Remember” dei Dream Theater (veri mentori dei Closed Circle), in un’alternanza di sequenze insane e cambi di tempo repentini, senza soluzione di continuità. Qualche sprazzo thrash, però a metà brano l’assolo di tastiera è troppo farraginoso e appesantisce un pezzo già corposo e che ricorda nel finale i lavori solisti di un certo Derek Sherinian. Opener tosto, in definitiva, che colpise nei primi minuti per quadratezza, ma richiede un notevole dispendio d’energia da parte dell’ascoltatore, che arriva affaticato alla fine dei primi sei minuti di musica.
I Closed Circle esigono tale dispendio uditivo e così l’avvio di “Origin of Doubt” è più che terremotante, tra sentori di Cynic e una claustrofobia totale. Dopo un finale in fade out, pare prendere vita un breve rasserenamento: “Time Without a Owner” attacca con cadenze in palm mute e tapping di basso. I fraseggi chitarristici si mantengono aspri, ma a tratti meno pesanti rispetto ai due brani precedenti; l’ecletticità resta, però, un miraggio. A metà del quarto minuto la prima vera schiarita del platter, giusto alcuni secondi semiacustici, poi tutto torna cupo. Si avvertono gl’influssi dei già citati Dream Theater (di “Octavarium”, “The Count Of Tuscany”, ma anche Train of Thought). Al settimo minuto c’è spazio anche per alcuni sample recitati che rimandano al capolavoro Awake. Altri ascendenti sono i Fates Warning e i Planet X.
Sempre più fiaccati da tanta pesantezza metallica, ci accingiamo all’ascolto di “Come in. Otto’s Dead”: siamo al giro di boa dell’album, ma si vorrebbe fosse già finito. Ancora sample e dissonanze: va bene l’assunto dell’ars gratia artis rivendicato dal trio prog. però qui si esagera. Si vogliono creare dei climax manierati che sfociano inevitabilmente in delusioni cocenti.
Doppia cassa a mille per “Escape from Yourself”, altri otto minuti di terra bruciata. Intro oscuro per “Chain On”, con buone linee di basso e abbellimenti araboidi. A metà del quarto minuto un veloce assolo di basso, poi le trame arzigogolate tornano a dipanarsi in modo discontinuo. Le cose migliorano sul finale, dove i ritmi si smorzano e le chitarre puntano sulla melodia. Tutto in un attimo, poi il brano termina in modo circolare, come a rievocare il moniker della band, che nella title-track conclusiva sembra fare, altresì, il verso all’opener tanto i due pezzi sembrano interscambiabili.

Si arriva provati alla fine di Illusion Effect: i Closed Circle non lasciano spazio a illusioni ricreative, il loro sound è diretto e monotematico nella sua ipertecnicità. Prendere o lasciare, inclusi un minutaggio lunghissimo, linee di basso spesso troppo metalliche, e un drumwork iper-portnonyano. Mancano dei veri assoli di chitarra, qui sta il pricipale difetto del disco, che purtrotppo non arriva nemmeno lontanamente al confronto con quanto di buono proopsto da formazioni strumentali come Animations, Conquering Dystopia e Mekong Delta. Il tempo per crescere c’è, speriamo nel futuro.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

Ultimi album di Closed Circle