Recensione: Impending Chaos

Di Damiano Fiamin - 19 Gennaio 2012 - 0:00
Impending Chaos
Band: Army Rising
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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55

Gli Army Rising sono un quartetto di belle speranze proveniente da Fethard, Irlanda. Nonostante siano piuttosto giovani, l’età media dei componenti è di vent’anni, hanno già all’attivo un buon numero di concerti sia in patria, sia nel vicino Regno Unito. Com’è lecito aspettarsi da ragazzi galvanizzati dal successo riscosso in sede live, anche O’Brien e soci hanno deciso di registrare il primo album “ufficiale”, Impending Chaos. Le influenze del gruppo sono classiche, simili a quelle di tanti altri appassionati di metal in giro per il globo: scartabellando nella lista, troviamo Metallica, Iron Maiden e Pantera, affiancati a Megadeth e AC/DC. Con simili premesse, immagino che nessuno si sconvolgerà quando riveleremo che il disco che presto verrà analizzato è assimilabile nella grande famiglia dell’heavy metal vecchio stampo a cui, senza timore, viene aggiunta una farcitura di thrash. Pronti alla disamina? Via!

La traccia iniziale, Who I am, mette subito le cose in chiaro: traspare una gran voglia di darci dentro, con la batteria che si contorce indiavolata mentre le chitarre si intrecciano in riff velocissimi. Dopo un esordio fulminante, il brano si sviluppa con un ritmo altalenante, in cui momenti trascinanti si alternano a episodi più calmi, in una commistione non sempre riuscitissima e che, in ogni caso, si trascina un po’ troppo per le lunghe. Destination grave è  più martellante della canzone precedente, un carico di energia pronto ad esplodere ad ogni plettrata; il quadro complessivo non è decisamente originale, tutt’altro, però si lascia ascoltare e ci accompagna senza problemi nella terza traccia, War. Il sapore degli anni ottanta è inconfondibile e aleggia per tutti i quattro minuti di un brano che, però, trova il suo senso solo durante l’assolo, impaludandosi altrimenti in costruzioni ritmiche fin troppo rallentate. L’influenza dei primi Slayer è evidente sin dall’incipit di Lost generation. Gli irlandesi aprono con una serie di riff granitici e aggressivi, lasciando solo dei brevi istanti di respiro melodico in una canzone che, pur non vincendo il premio per l’innovazione, accalappia l’ascoltatore e lo scuote con vigore, tra chitarre taglienti, bassi feroci e batteria indemoniata, trascinandolo con veemenza fino al viscoso finale, un soffocante ponte che ci  stordisce prima di lasciarci cadere nelle grinfie del pezzo più breve del disco, Tyrant.
La musica non cambia, in tutti i sensi, ci troviamo davanti un brano heavy metal con inserti più spediti, che ben si appaia con la successiva I’m dead, caratterizzata anch’essa da fraseggi pompanti e una netta preponderanza di parti strumentali rispetto a quelle cantate. Questa scelta, bisogna evidenziare, è vincente, poiché la voce di O’Brien non è particolarmente accattivante: penalizzata anche da una produzione che la ottunde notevolmente, non riesce a spiccare e a dare una spinta ulteriore alla band. L’epica apertura di If you want peace è il segnale che ci stiamo addentrando in uno dei brani migliori dell’intero CD, dove cui tutti i musicisti danno il meglio di sé e si prodigano per tirare fuori tutte le energie residue, sia quando si tratta di premere sul pedale dell’acceleratore, sia quando è necessario smorzare i toni e calare il ritmo. Meglio sorvolare su Strength of none, banale in modo fastidioso e certo non memorabile nella sua esecuzione. Fallacy è caratterizzato da una maggiore attenzione all’armonia: pur non abbandonando l’esecuzione grezza e incattivita che ha segnato tutto il disco, questa canzone ha lunghi momenti in cui cori puliti si affiancano a strumenti meno distorti, in un encomiabile, sebbene non proprio riuscitissimo, tentativo di variare un po’ la proposta musicale della band. Arriviamo alla conclusione, ormai certi di aver capito tutto, e veniamo spiazzati da un’introduzione completamente avulsa da tutto quello che c’è stato prima: l’incipit di Visions è una ballata ad altissimo contenuto melodico, quasi sognante, che si libra leggera prima di lasciarci sbattere nuovamente contro il duro muro sonoro che gli irlandesi sono in grado di creare quando ci si mettono d’impegno. I cambi di passo sono, stavolta, tutti ben incastrati, in un amalgama riuscita che chiude in bellezza l’album.
 
Siamo infine giunti alla conclusione e, come sempre, è il momento di tirare le somme e formulare una critica sintetica su quanto ascoltato. Impending Chaos è un disco altalenante, sia come qualità, sia come contenuto. Il quartetto irlandese ci mette l’anima, e si sente, ma paga qualche ingenuità di troppo a livello compositivo. Lo spessore dell’intreccio armonico è un po’ troppo banale, pur tuttavia non raggiungendo mai livelli indecorosi. Dal punto di vista puramente tecnico, nota d’encomio per la batteria di Barret, vero cardine su cui ruota tutto il gruppo, in grado di caricare e rafforzare tutti gli altri musicisti. Ad eccezione della voce, di cui abbiamo già parlato all’interno della recensione, la produzione è di buon livello. In definitiva, abbiamo tra le mani un debutto che si lascia ascoltare ma non lascia il segno. Teniamo, comunque, d’occhio questi quattro, potrebbero maturare in maniera interessante!

Damiano “kewlar” Fiamin

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Tracce:
 1 – Who I am
 2 – Destination grave
 3 – War
 4 – Lost generation
 5 – Tyrant
 6 – I’m dead
 7 – If you want peace
 8 – Strength of none
 9 – Fallacy
 10 – Visions

Formazione
Louise Rice: Basso
Ted Barret: Batteria
Garreth Lawrence: Chitarra
Tony Miler: Chitarra
Noel O’Brien: Voce, chitarra

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