Recensione: Imperium Draconus

Di Stefano Usardi - 8 Dicembre 2018 - 10:00
Imperium Draconus
Band: Vermithrax
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2018
Nazione:
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78

Domanda: cosa potrebbe mai celarsi dietro un gruppo che prende il nome dal drago di un film degli anni ’80 e che decide di intitolare il suo primo album “Imperium Draconus”? Sbagliato! Eh sì, per un attimo anch’io mi sono lasciato prendere per il naso immaginando chissà quale gruppo di power metal trito e ritrito, melodicissimo e bombastico, che inanella una dietro l’altra una serie di canzoni pompose e fiacche tutte uguali che parlano di draghi e battaglie, e invece no! I Vermithrax, quintetto di Pittsburgh formato da ex membri di Order of Nine, Reading Zero e Bird of Prey, si dedicano a un drittissimo mix tra power e thrash, dinamico e sferzante, che inanella una dietro l’altra una serie di canzoni aggressive e vorticose NON tutte uguali (anche se ad essere cattivi una certa dose di ripetitività c’è) che parlano di draghi, battaglie e tributano gli onori, tra le altre cose, a una certa ambientazione fantasy tra una mazzata e l’altra.
Power/Thrash, si diceva: definizione un po’ vaga, dacché viene accostata indiscriminatamente tanto agli Iced Earth quanto agli Helstar, passando per i Nevermore e chi più ne ha più ne metta, eppure in questo caso non mi viene in mente un termine più adatto per descrivere il tessuto sonoro dei nostri cinque americani. Prendete un tappeto di ritmiche compatte e minacciose, aggiungete riff poderosi e sferzanti presi dal periodo d’oro della Bay Area e un basso aggressivo, mai domo e alla costante ricerca di un modo per rimbombare nello stomaco; infine coronate il tutto con una voce acida, rombante e abrasiva, e avrete il vostro debutto! “Imperium Draconus” prende ciò che più gli serve dai due mondi e lo adatta alle proprie necessità fino a formare un impasto graffiante e denso che, nonostante una base di solido U.S. power, ne impenna il tasso di cattiveria sconfinando costantemente nel thrash metal più cafone.

Dopo l’intro acustica dal profumo spagnoleggiante si parte subito minacciosi con “Enoch”, tra i cui giri di chitarra sembra di sentire i Testament dei primi due lussureggianti album che si fondono ai Sanctuary e ai Brainstorm più coatti, il tutto guarnito da inserti che strizzano l’occhio (ma poco poco) alle ultime tendenze americane per rendere il prodotto finale più appetibile. La canzone si mantiene aggressiva, pastosa e arcigna per tutta la sua durata, distenendosi su ritmi funambolici ma non troppo sparati e sfumando poi nella sulfurea “Crucified by Hate”. Qui l’anima heavy del gruppo torna alla ribalta, rallentando i ritmi per concedersi una bella iniezione di minacciosità, confezionando così una marcia maligna e insistita che però, nonostante una bella sezione centrale che ha il pregio di frammentarne l’incedere, mi è sembrata nel complesso un po’ troppo statica. Si prosegue con “Road to Athkatla”, che dopo qualche effetto di sottofondo ingrana col piglio giusto, dispensando rapide scudisciate dal retrogusto speed. Sebbene la canzone si assesti, poco dopo, su tempi perlopiù scanditi e minacciosi, il gioco delle chitarre infonde a questo o quel passaggio un tono più bellicoso o solenne senza mai perdere di vista la sua torva incombenza. “River Cruor” parte furibonda, sferzante, disseminata di echi slayeriani che fanno capolino tra una martellata e l’altra mentre Chris, da dietro il microfono, riecheggia a modo suo l’imponente Chuck Billy. Il rallentamento centrale consente ai nostri di giocare con velocità meno vorticose, mettendo in mostra anche un certo gusto per le armonie aguzze ma al tempo stesso ricercate, prima di venir fagocitati di nuovo nel vortice di riff che chiude il pezzo e apre la successiva “Spellbound”. Qui, a un’apertura arrembante seguono ritmi più blandi, ritmati, pervasi da un substrato quasi sognante in un paio di occasioni, che però all’improvviso vengono squarciati da sporadici assalti. Anche in questo caso la canzone gioca con diverse atmosfere, dosando sapientemente carica propulsiva, dolcezza e groove ma propendendo comunque per un certo nervosismo anche nei momenti più tranquilli. Stessa cosa si può dire per “Calling My Name”, altro pezzo arcigno e scandito in cui i nostri prodi vanno dritti per la loro strada sfruttando ritmiche corpacciute e riff circolari, sinuosi, che in più di un’occasione richiamano alla mente Nevermore e Sanctuary. Il rallentamento che si appropria della seconda parte della traccia insinua una nuova dose di malignità nell’amalgama del gruppo, ma il ritorno a velocità più corpose dissipa le ombre giusto in tempo per il finale. Chiude l’album un medley di due pezzi dei Flotsam & Jetsam, qualora ci fosse stato bisogno di ribadire le radici dei cinque americani.

Al termine di questo “Imperium Draconus”, mi alzo dalla sedia soddisfatto: non contando il medley conclusivo, comunque ben eseguito ma a conti fatti superfluo, e soprattutto lo stupro della lingua latina nel titolo, i Vermithrax confezionano una mezz’ora di musica dinamica, aggressiva e priva di fronzoli ma anche molto ben strutturata: una mattonata che va dritta al punto senza perdersi per strada e mette in mostra la perizia dei nostri nella costruzione di brani solidi, diretti e corposi, in cui aggressività e melodia procedono di pari passo senza intralciarsi o far scadere il tutto in una ricerca del facile consenso a tutti i costi. Bell’inizio.

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