Recensione: In Cauda Venenum

Di Simone Volponi - 27 Settembre 2019 - 0:01
In Cauda Venenum
Band: Opeth
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2019
Nazione:
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70

Sul fatto che gli Opeth non sono più la band di un tempo siamo tutti d’accordo, giusto? È cosa assodata e non stiamo più a mugugnare sulla falsariga del “Eh, ma questi non sono gli Opeth”… Se così non fosse, se appartenete al gruppo dei nostalgici, risparmiate pure il vostro tempo, passate oltre, e lasciate “In Cauda Venenum” al suo destino, ovvero quello di essere un disco per fruitori di prog rock settantiano.
La grande colpa di Mikael Åkerfeldt è quella di continuare il proprio percorso musicale utilizzando il nome Opeth, invece di usare il suo per una più adatta carriera solista. Ma di certo non si può colpevolizzare lo svedese per aver voluto esplorare nuovi (vecchi) orizzonti. Un artista giustamente segue l’ispirazione, e poi gli Opeth sono la sua band e, sempre giustamente, ci fa quello che vuole.
 

This is me. This is OPETH. I think by now fans will recognize—at least I hope they do—my writing style, our sound, what we do as a band.” (Mikael Åkerfeldt).

 

In Cauda Venenum” nasce come sfogo dell’animo, diario di un travaglio interiore, ma qui non siamo nello studio di uno psicanalista e francamente poco importa dei sentimenti di Mikelino. Bisogna vedere se la musica, grande veicolo di emozioni, riesce a toccarci in qualche modo, a smuovere i nostri neuroni e la nostra pelle.
Composto in solitaria e poi registrato con il resto della band, poco più che dei comprimari fatta eccezione per il tastierista Joakim Svalberg, “In Cauda Venenum” è per l’appunto un album di prog rock anni ‘70, che mette insieme tanti segmenti, tanti passaggi sonori che non sempre concludono il discorso con una melodia memorabile. Un flusso di coscienza che attinge a E.L.P. e al prog inglese, ma con una impugnatura hard negli strumenti e un sentore heavy che resta sottinteso. Diversi passaggi risultano efficaci all’ascolto. In ‘Dignity’, se vogliamo proprio ascoltare il dettaglio, per esempio c’è un momento in growl che sfuma via, e l’impegno vocale di Åkerfeldt è molto sentito, per nulla evanescente, con un ottimo assolo per una traccia che ha la sua gradazione heavy nel come arrotonda le note.
Heart In Hand’ ha una galoppata come se ne sentivano negli anni ‘70, vibra di inquietudine grazie all’hammond e ai giochini che ci fa Svalberg vestendo i panni di Keith Emerson, con un pathos drammatico e un ottimo lavoro delle chitarre. Il basso è pulsante, la batteria sporca, si colgono tutti i dettagli, e anche la parte acustica in cui scivola il pezzo è ben realizzata.
È musica eterea che cerca l’incanto, si fa trasognata, e vuole avvolgere l’ascoltatore. Anche stordirlo con momenti psichedelici (‘Next Of Kin’, dotata di un altro bel momento acustico). Musica dove la band si specchia comunque troppo nella compiacenza tipica del genere, anche se senz’altro l’anima non manca.
Tanti i bei momenti colti qua e là come fiori. ‘Lovelorn Crime’ e la sua apertura per piano e voce, declinata poi in un numero melanconico alla King Crimson con accompagnamento di violini sintetici. Il cantante svedese langue un po’ troppo, ma ci pensa un assolo davvero intenso a riprendere l’attenzione della nostra mente. ‘Charlatan’ e la sua cattiveria contorta, oscura pur senza la pesantezza strumentale del metal. Un po’ come ‘Universal Truth’, che spinge per poi ritirarsi nel placido, quasi con timore, in un saliscendi che si presta all’essere stucchevole, lì nel conforto della zona acustica.
Ci sta che il fan datato, o semplicemente impaziente, possa chiudere la pratica bollando a male parole il dischetto in questione. È più che comprensibile. Serve sforzo, dedizione, impegno. Tempo. Prendere quei segmenti riusciti (la misterica ‘The Garroter’ tanto per dire) ed estrapolarli dalle lunghe litanie in cui la band indugia, dove prevale la noia (‘Continuum’).

Ci sono cose già sentite nei precedenti lavori del nuovo corso della band (il nome lo evitiamo non a caso), corso del quale “In Cauda Venenum” rappresenta la messa a fuoco, il lavoro meglio riuscito, pur restando elitario in molte parti. Mai come in questo caso sarà proprio il tempo a parlare, a dirci come valutare quest’ora e passa di musica.
La versione originalmente concepita è in svedese, ed è anch’essa disponibile per i completisti e per chi vuole giocare a fare il raffinato dicitore musicale con tanto di sciarpetta bianca e pipa in bocca. Su quella il sottoscritto non ha messo orecchio. Per cogliere i frutti di “In Cauda Venenum”, sparsi in una struttura musicale troppo complessa, è sufficiente la versione inglese.
Splendida la copertina di Travis Smith, così come la conclusiva ‘All Things Will Past’.

 

Simone “Svart” Volponi

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