Recensione: In Pursuit of Memory

Di Francesco Sgrò - 19 Novembre 2018 - 0:01
In Pursuit of Memory
Band: Atlas
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2018
Nazione:
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70

Determinazione, passione e pura energia trasudano dai solchi di questo “In Pursuit Of Memory”, primo interessante tassello discografico di fresca pubblicazione, confezionato dai britannici Atlas sotto l’ala protettrice della AOR Heaven.
Anticipato da un artwork dal forte sapore mistico, questo album presenta una band tecnicamente preparata e forte di un songwriting solido ed orecchiabile, imperniato soprattutto sulle trame chitarristiche orchestrate dal duo John Moss e Howie Little e sulle vibranti melodie condotte dalla sapiente ugola del bravo Craig Wells, vocalist in possesso di una timbrica acuta e squillante.

ll risultato finale è dunque racchiuso in un esordio di buona fattura, come dimostra l’iniziale “Samsara”, brano roccioso ed elegante, condito proprio dal cesellato operato delle due asce, perfettamente in sintonia con il pregevole tappeto sonoro curato dal giovane tastierista James Thorley, a supporto di una buona melodia vocale che, tuttavia, avrebbe potuto essere più incisiva in un refrain non troppo memorabile, anche se ben interpretato dal singer.

Seppur ben programmato, l’album, più di ogni altra cosa soffre della scomoda mancanza di un reale batterista, in grado di conferire ai vari brani proposti una profondità sonora adeguata alle necessità del gruppo.
Un vero peccato: la sostenuta “Bad Habit” riesce nel compito di mantenere viva l’attenzione del fruitore, ma avrebbe potuto risultare maggiormente efficace con l’apporto di un vero e proprio drummer, in grado di sostenere il comunque ottimo lavoro di tutta la band che, questa volta incastona un ritornello accattivante e diretto.
Con “Breathe Me In” si resta su livelli artistici elevati e piacevoli, così come pure accade nella successiva e sognante “Flesh And Blood”, episodio in cui voce e chitarra si fondono in un binomio perfetto, che si sublima in un coro semplice e di grande impatto.

Pochi minuti dopo, “As Time Goes By” e “In The Frame”  presentano ancora una solida ossatura compositiva, in cui sono nuovamente le due chitarre e la cristallina voce di Wells a controllare la situazione, in un continuo turbine di melodie ispirate, legate nel contesto con grande attenzione e sapienza.
Con la massiccia “Lock And Key”, il gruppo non aggiunge sostanziali novità a quanto proposto finora ma, certamente, la qualità di songwriting resta di notevole caratura, come dimostra anche la successiva “Seasons Change”, sempre perfettamente in bilico fra potenza e melodia.

Un’atmosfera più romantica e rilassata, caratterizza invece l’essenza della bella “Signal Of Hope”, power ballad che recupera perfettamente lo spirito dei gloriosi anni ’80 e fa da preludio alla bellissima “Letting Go”, penalizzata solo da una totale assenza di groove dovuta, ancora, alla mancanza di una batteria suonata realmente.
Più confusa risulta invece essere la seguente “Supernova”, che alterna buoni momenti ad altri più anonimi e non esaltanti, come nel caso del sofferente ritornello.
L’ultima parola per questo album spetta infine alla più ragionata ed ispirata “Live And Forget”, canzone che chiude dunque un prodotto senz’altro piacevole ma, a tratti, anche costellato da alcuni nei non trascurabili. 
Peccati veniali che, in ogni caso, non impedisco d’intravedere buone sorti per il futuro di questo giovane progetto inglese.

 

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