Recensione: In The Name of The Father

Di Simone Volponi - 16 Febbraio 2016 - 0:29
In The Name of The Father
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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70

Debutta con questo “In The Name Of The Father” il progetto Enzo And The Glory Ensemble, voluto fortemente dal chitarrista, cantante e compositore Enzo Donnarumma, attivo come voce dei Members Of God, nonchè arrangiatore, regista, autore ed interprete teatrale. Enzo annovera anche diversi premi nel settore, come il premio miglior regia alla rassegna nazionale Teatroggi 2002 per un’edizione di Jesus Christ Superstar. Il disco in analisi potrebbe essere tranquillamente considerato come la più grande e ambiziosa Christian Metal Opera, così come ci viene presentato dall’etichetta Underground Symphony. In effettiDonnarumma proviene da un background fatto di studi teologici: la sua intera attività musicale è infatti di forte estrazione cristiana. La sua visione artistica consiste nel realizzare delle vere e proprie odi, dove sviluppa le proprie tesi e pensieri, unendole ai salmi e alle preghiere presenti nella Bibbia, musicando il tutto in una accattivante commistione di metal, musica classica, world music e musical tout court.

Chiamati a sè artisti di livello internazionale quali Gary Wehrkamp Brian Ashland degli Shadow Gallery (con i quali Donnarumma collabora da diversi anni), l’onnipresente “San” Ralf Scheepers (Primal Fear), Kobi Farhi (Orphaned Land), Nicholas Leptos (Warlord, Arryan Path) e il mitico Marty Friedman (ex-Megadeth) tra gli altri, il Glory Ensemble ha così preso forma e vita.

La cerimonia si apre con una breve intro (la titletrack) dal sapore mediorientale, con clarinetto e vocalizzi da muezzlin da parte dello stesso Donnarumma, lasciando subito spazio alla tirata “Psalm 63″, pezzo power sostenuto da una forte componente orchestrale che ci riporta alla mente i Rhapsody di Turilli. Ottimo l’intreccio vocale tra il tono gregoriano di Donnarumma e quello più classico di Brian Ashland, che trovano compimento in un refrain azzecato. Notiamo subito come, in sede di produzione, l’orchestra sia predominante, appiattendo un poco il lavoro della batteria e lasciando in sottofondo le chitarre almeno fino al momento dell’assolo. “The Lord’s Prayer” invece è una bella ballad sinfonica in duetto con Kobi Farhi, a suo agio in certe atmosfere e su tali tematiche. Ottimo il guitarwork di Donnarumma, che riesce a spiccare maggiormente inserendosi nell’imponenza orchestrale.

Il duetto Farhi-Donnarumma si ripete nella successiva “Anima Christ” così arabeggiante da portarci in chiara zona Orphaned Land. Affascinante “Glory Be To The Father”: flauti, crescendo sinfonico, e la suadente voce della brava Amulyn. Veramente una preghiera toccante rivolta a chi, da lassù, magari ci guarda. Si torna in territori power con “Benedictus”, altra traccia alla Rhapsody dove compare Ralf Scheepers… e anche qui, in un contesto apparentemente lontano dalla propria band madre, la sua performance non fa una piega. Un vero campione! Tra fiati e cori imperiosi a sostenere chitarra e batteria spinte (anche se sempre un po’ schiacciate), stacchi che sanno di opera teatrale e ritornello dai toni lirici, fa la sua bella figura anche il bravo Nicholas Leptus. Traccia migliore del lotto.

Spiazzante “The Apostle’s Creed”. Qui, Donnarumma mostra la sua capacità recitativa e tutta la sua esperienza teatrale in un pezzo da musical, dall’andamento folleggiante e bizzarro, che si interrompe bruscamente dando il la a “Hail Holy Queen”, ode alla Vergine Maria, dove Donnarumma si ritaglia un altro spazio tutto suo, accompagnato dall chitarra di Marty Friedman, acustica nell’arpeggio d’apertura. Sembra davvero di essere all’interno di una cattedrale ad ascoltare l’orchestra, il coro, e il canto sentito del cerimoniere. E nel finale, Friedman lascia un assolo (stavolta elettrico) toccante e ben amalgamato con il crescendo sinfonico. Ritroviamo l’ex Megadeth alla clean guitar anche all’inizio di “Guardian Angel Prayer”, un breve intermezzo che porta all’imponente “Psalm 3″, sontuosa traccia che ricorda i Kamelot, dominata sempre dall’orchestra, dove troviamo una pregevole prestazione al microfono di Gary Wehrkamp.

E si arriva alla fine della cerimonia con “Maybe You“, chiusura a quattro voci (Donnarumma-Wehrkamp-Ashland-Leptos) con pianoforte in evidenza e melodia dominante in un coro ripetuto stile Savatage Trans-Siberian Orchestra, per un altro degli highlights del lavoro. In conclusione, “In The Name Of The Father” è un’opera certamente affascinante, ben composta ed interpretata da professionisti navigati. Va detto però che non si tratta di un ascolto facile, non è un disco da sottofondo; i pezzi non sono tutti immediati, e bisogna prendere confidenza con il timbro particolare di Enzo Donnarumma. Il debutto dei suoi The Glory Ensemble, profondamente ispirato da una sincera fede, va seguito con profonda attenzione, libretto alla mano, per carpirne ogni sfaccettatura ed implicazione teologica. 
 

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