Recensione: In the Passing Light of Day

Di Fabio Martinez - 29 Gennaio 2017 - 10:00
In the Passing Light of Day
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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70

La musica è qualcosa che si capisce davvero del tutto? Non è forse il gusto, oltre ovviamente alla cultura e ad altri fattori, che ci permette davvero di apprezzare un album, come un singolo brano? Eppure quanto spesso sentiamo il concetto: “capire di musica”! Il significato etimologicamente più originario di “capire” è “afferrare”. Quindi capire di musica può riferirsi forse di più a quanto si è capaci di afferrare cosa stiamo ascoltando, quanto siamo capaci di afferrare il messaggio dell’autore. E chi lo capisce di più se non l’autore stesso? È indubbio che l’autore è colui che con più autorità può avere i primi pareri sulla propria opera, pareri certo meno soggettivi di quelli degli altri, e per questo è giusto, mi pare, porsi sempre umilmente davanti a un prodotto che non sia il nostro. Inoltre il prestigio di un musicista gli conferisce la giusta e meritata autorità nel suo campo e un musicista immenso come Daniel Gildenlöw penso debba averne proporzionatamente al suo valore artistico. Non vuol dire tutto ciò porsi in sudditanza davanti a lui ma dargli fiducia, affidarsi al suo gusto, quando si sente un suo lavoro.
Questa ovviamente è sempre una sfida ardua e forse ancora di più lo è ascoltare il nuovo lavoro di una band fondamentale, qui i Pain of Salvation, senza restare ancorati ai suoi album migliori, un gruppo che è impossibile non amare, quando si è progster o semplicemente appassionati veri di musica. Sì, è difficilissimo svuotarsi di tali sentimenti e tali ricordi ma è questo che dobbiamo fare, soprattutto perché quella di ora non è la formazione che ha dato corpo ai primi lavori dei PoS, ora di quella band è rimasto solo Gildenlow, accompagnato dal chitarrista Ragnar Zolberg, dal bassista Gustaf Hielm, dal tastierista Daniel Karlsson e dal batterista Léo Margarit.
Quando ho sentito la prima traccia di In the Passing Light of Day, sono tornato a provare ciò che ho provato già dai primi minuti di Entropia, ho percepito una incontrollabile voglia di mangiare quella musica, di afferrare quelle note, quelle parole, per comprendere tutto di esse e di chi dava loro vita. Tendevo le mani verso quella musica, che racconta di quello che parrebbe un ritorno autentico, anche se con un’anima più pesante, e poi lentamente le ritraevo, mentre le tracce si susseguivano in un crescendo di incertezze, intoppi farraginosi, ripetizioni e banalità che trovano un loro iniziale apice negli assolo di Angels of Broken Things, assolo tanto banali e fuori contesto che c’è da chiedersi se non siano stati suonati in un deserto fuori da una chiesa, mentre qualcuno si sta sposando (ci tengo a precisare che adoro November Rain).
L’album infatti esordisce benissimo con On a Tuesday, e continua su livelli discendenti fino all’ultima traccia. Tongue of God, il secondo brano, si apre con una piano, che mi richiama l’Adam Holzman degli ultimi due Ep di Steven Wilson e che viene sommerso da chitarre cantanti una sofferenza subito richiamata dalla voce di Gildenlow, il tutto con ritmica quasi stancante ma subito sostituita da Meaningless, che, anche se composta da Zolberg, è perfettamente in amalgama nell’album, diverte, costringe a muoversi. Dicotomia ripetuta dalle successive due tracce, Silent Gold e Full Throttle Tribe. Ma, mentre fin qui tutto sembrava equilibrarsi, ora si cominciano a sentire le prime crepe di una stanchezza e ripetitività compositiva, che richiamano bene il concept dell’album ma non vengono più bilanciate a dovere da scosse progressive e infatti l’anima dei primi lavori dei PoS lascia lentamente il posto a quella di Scarsick e Road Salt.
Reasons continua nella ripetitività ormai tipica dell’album, lasciando troppa perplessità, la quale comincia a diventare delusione, che cresce sempre più da Angels of Broken Things, passando da Taming of a Beast, If This is the End e culminando con l’incomprensibilmente prolissa The Passing Light of Day. Quest’ultime tracce dovrebbero veicolare la riapertura alla vita e alla speranza di Gildenlow, che davvero aveva visto una semplice infezione trasformarsi nella minaccia della sua morte e nel passeggero confino in letto d’ospedale. Tuttavia la transizione alla vita viene narrata senza quelle emozioni dirompenti, strazianti, che i PoS sanno, o forse sapevano, urlare nelle vene come pochissimi, sopprimendo la speranza e del microscopico dell’ascoltatore dell’album e dell’amante del gruppo.
Come sempre con i Pain of Salvation, l’album necessita di più ascolti ma qui sembra che più ascoltandolo, l’album riveli le sue pecche, la sua musica debole, poco ispirata, la quale dona solo a tratti le emozioni che è giusto aspettarsi da Gildenlow. Questo ancora affronta una sua fortissima esperienza personale e riesce a far sentire le schegge del suo dolore, a farle penetrare nei nostri cuori ma non a fondo come un tempo e forse solo con i testi, qui troppo sussurrati, recitati e cadenzati, lasciando uno spazio troppo angusto a quel cantato, che chiunque conosca i Pain of Salvation riconosce come tra i più belli della nostra musica. Ho cercato più volte di svuotare la mente, di ascoltare In the Passing Light of Day come se fosse la prima volta che sentivo i PoS e ogni volta sono rimasto con l’amaro in bocca, con un certo sentimento di delusione. Quindi ho provato a sentire l’album paragonandolo a quelli dei PoS che amo e ho provata una piacevole nostalgia, ho sentito un lieve sorriso, per la lunga attesa ripagata, anche se non come mi sarei aspettato e come penso sia giusto aspettarsi.
Gli intoppi farraginosi, a volte banali, le sonorità che tradiscono una contaminazione forzata della contemporaneità, la discendente brillantezza espressiva e creativa rischiano di annebbiare il buono e il bello che c’è in In the Passing Light of Day. Tante volte mi sono chiesto se e quanto mi piacesse questo album. Sono passato dal grande entusiasmo dei primi ascolti alla grande delusione dei successivi, per poi ricordarmi di quanto ho scritto a inizio di questa recensione.  È l’autore il primo e l’ultimo ad avere il diritto di giudizio sulla sua opera, soprattutto quando è così personale ed emozionale. Ogni ascoltatore, specialmente in casi come questo, deve solo chinare il capo umilmente, fidarsi di un gruppo tanto autorevole quanto i Pain of Salvation e dare spazio e ascolto alla loro opera.
In fondo, che piaccia o meno poco conta, questa è sempre arte e l’arte sempre edifica.

 

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