Recensione: In This Life

Di Marco Tripodi - 3 Agosto 2018 - 8:00
In This Life
Band: Mordred
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 1991
Nazione:
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94

Tutto ebbe (forse) inizio con i Faith No More di “We Care A Lot” (1985), che però dovettero aspettare Mike Patton e “The Real Thing” (1989) per ottenere l’attenzione e la curiosità di una fetta consistente di audience. Nell’89 ci sono anche i Last Crack di “Sinister Funkhouse #17” (la cosa più simile ai Faith No More mai esistita), i Living Colour di “Vivid“, gli Urban Dance Squad di “Mental Floss For The Globe“, i 24-7 Spyz di “Harder Than You“, gli Scatterbrain di “Here Comes Trouble“, i Red Hot Chili Peppers con “Mother’s Milk” (per altro già al quarto album), i Fishbone ne avevano pubblicati due e sarebbe bastato attenedere un anno per avere anche “Frizzle Fry” dei Primus, “Ritual De Lo Habitual” dei Jane’s Addiction, “Stinky Grooves” dei Limbomaniacs e l’omonimo dei Liquid Jesus. Di cosa sto parlando? Dell’affacciarsi di elementi schiettamente funky in ambito metal o comunque pesantemente rock. Anthrax e Suicidal Tendencies ci flirtavano già da un po’ e attorno al 1990 altre thrash band come Nuclear Assault, Death Angel, Acid Reign, etc, metabolizzarono quei suoni elastici e snodati dentro la loro consueta voglia di rivolta e rivalsa sociale.

Tuttavia fu il 1991 a passare alla storia come l’anno del costituirsi del vero e proprio genere autonomo ed indipendente del “funky metal”. L’elenco dei dischi riferibili al filone rilasciati in quel fazzoletto di mesi è impressionante: IgnoranceThe Confident Rat“, Mind FunkMind Funk“, White TrashWhite Trash“, PrimusSailing The Seas Of Cheese“, Infectious GroovesThe Plague That Makes Your Booty Move… It’s The Infectious Grooves”, Scat OperaAbout Time“, LeewayDesperate Measures“, PsychefunkapusPsychefunkapus“, ScatterbrainScamboogery“, Murphys’ LawThe Best Of Times“, e chissà quanti altri sto dimenticando. I veterani Anthrax nel 1991 sono già ad “Attack Of The Killer B’s” con i Public Enemy, il funky arriva da tutti i fronti, invade tutto, e nel calderone ci finiscono anche le ali estreme, band sicuramente funky, ma metal fino ad un certo punto, che si tratti dei genialodi ed iconoclasti Saigon Kick, dei francesci FFF (aka Fédération Française de Fonck), presi per i capelli e scaraventati dentro, o dei rapppers darkettoni Cypress Hill, per fare qualche esempio Un fenomeno esplosivo anche se di breve durata (secondo la massima del guerriero Kurgan di Highlander, per il quale “è meglio bruciare subito che spegnersi lentamente“). Nel ’92 continueranno a piovere dischi (Rollins Band, White Zombie, Rage Against The Machine, “Angel Dust” dei Faith No More, etc.), ma il funky metal sarà già avviato alla consunzione come movimento a sé stante, riservandosi di sopravvivere come contaminazione all’interno di altri generi (e del resto, il funky è esistito prima, durante e dopo, da che musica è musica).

Da tutto questo sterminato elenco ho omesso volutamente un gruppo sul quale intendo concentrarmi in particolar modo. Perché tanta eccezionalità di trattamento? Perché i Mordred, e segnatamente quelli di “In This Life“, pur non essendo stati i pionieri del funky metal sono coloro i quali – a mio modesto parere – pubblicano l’album più significativo di tutto quel mondo lì. Senza nulla togliere al valore storiografico e qualitativo di indiscutibili pietre miliari come “Vivid” o “The Real Thing“, “In This Life” diventa per me il titolo manifesto del metal ibridato col funky, il disco da avere per sintetizzare il genere, per comprenderlo interamente, per averlo degnamente rappresentato all’interno della propria collezione di dischi. Già nel debut “Fool’s Game” (’89) quella sensibilità è del tutto evidente, basti pensare alla cover di “Super Freak” di Rick James, a “Every Day’s A Holiday” ed a diversi altri spunti sparpagliati lungo la scaletta. Certo con “In This Life” due anni dopo lo stravolgimento è completo, il cambio di pelle è strabiliante, i Mordred scrivono il caposaldo di un genere, lo spartiacque con i quali tutti dovranno d’ora in poi confrontarsi per poter dire di aver scritto un buon album funky metal. Fatta salva una contenuta flessione negativa in chiusura dell’album, con “Larger Than Life” appena sotto soglia rispetto al resto della scaletta, l’intero lavoro è praticamente un concentrato di perfezione e qualità, capace di svariare dal thrash al metal, dal funky al reggae, senza tralasciare passaggi vocali a ritmo di rap (quando ancora si chiamava così e non hip hop), linee di basso da perderci la testa, ottimi solos ad impreziosire una trama già inestimabile di per sé e la innovativa presenza di un DJ in pianta stabile nella line-up, il tastierista tuttofare Aaron (Pause) Vaughn. DJ che non mancava neppure dal vivo, dove le performance della band mantenevano le ambiziosissime promesse fatte in studio (ho avuto la fortuna di vederli live e confermo senza remore).

Il track by track nel caso di “In This Life” rischia di essere un esercizio di stile, qui è da ascoltare e comprare tutto in blocco, beandosi esponenzialmente minuto dopo minuto, brano dopo brano. Arrivati a “Falling Away” si rischia il collasso per troppa emozione, poiché siamo di fronte ad uno dei più bei pezzi thrash metal di tutti i tempi, ancorché fortemente influenzato da linee funky. Davvero un capolavoro di drammaticità e intensità. Maturi e stimolanti i testi dell’album, fascinoso l’enigmatico e distopico artwork del disco, cangianti gli umori ed i colori disseminati qua e là, dalla malizia ammiccante di pezzi come la title track o “Downtown“, alla sfida assoluta lanciata agli integralisti del metal con una canzone come “Esse Quam Videri” (la versione expanded del singolo poi è davvero coraggiosa) e alla meraviglia di perle funky thrash come “The Strain“, High Potency“, “Window“, “Killing Time“. Un disco imprescindibile, di quelli per i quali la formula “buy or die” non è una stereotipata etichetta, una frase fatta, ma semmai appena un eufemismo.

Il bello è che i Mordred insisteranno un anno dopo con l’EP di sei pezzi “Vision“, assolutamente meraviglioso, un passo evolutivo ulteriore che serviva da antipasto per comprendere fin dove sarebbero potuti arrivare i ragazzi di San Francisco se solo il giocattolo non si fosse misteriosamente rotto subito dopo. Li vedremo tornare nel ’94, in un clima musicale pesantemente mutato, pur con l’ottimo “The Next Room“, che non contava più il carismatico (e per certi versi insostituibile) Scott Holderby alle vocals, e che vedeva parizlamente ridimensionata la dimensione funky, ma che costituiva comunque un buon episodio all’interno di una discografia però destinata a concludersi proprio con quell’isolato capitolo. Nel mare magno delle reunion “perchessì” ci sono naturalmente finiti anche i Mordred (con Holderby tornato all’ovile), che oggi di tanto in tanto danno qualche segno di vita mediante i Social, anche se di un nuovo album di inediti non si ha per ora nessuna concreta notizia (…e molto probabilmente è meglio così).

Marco Tripodi

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