Recensione: Incorruptible

Di Stefano Usardi - 21 Giugno 2017 - 9:33
Incorruptible
Band: Iced Earth
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2017
Nazione:
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70

A quattro anni dall’ultimo capitolo dell’epopea targata Iced Earth, quel “Plagues of Babylon” che aveva colpito pubblico e critica, Schaffer & C. tornano a farsi sentire pubblicando il loro dodicesimo studio-album, dal titolo forse un po’ pretenzioso (anche se sicuramente meglio di quello pensato in origine) “Incorruptible”. Quattro anni durante i quali di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, tra problemi di salute e conseguenti operazioni chirurgiche, cambi di formazione con ritorni e nuovi arrivi e chi più ne ha più ne metta, ma nonostante gli scossoni la compagine della Terra Ghiacciata vuole dimostrare di non aver perso lo smalto dei vecchi tempi. La musica proposta è sempre la stessa, un granitico e drittissimo U.S. power metal dalle ritmiche quadrate e una muscolarità più propriamente thrash (sebbene in quest’album la parte del leone la facciano i mid-tempo di scuola heavy) su cui si innestano melodie possenti e un’attitudine Trve che ai fan piace tanto. Purtroppo gli anni iniziano a farsi sentire e anche l’ispirazione deve registrare qualche battuta d’arresto, costringendo in più di un’occasione i nostri a puntare su un packaging appagante e sbrilluccicoso (che comunque Jon non ci ha fatto quasi mai mancare, sempre attento ad appagare anche l’occhio dell’utente finale) e sulle proverbiali lacrime e sangue, versate per sopperire a qualche inevitabile calo di creatività. Fortunatamente, in casi simili ci ha pensato il nuovo entrato, il talentuoso chitarrista Jake Dreyer, a metterci una pezza e salvare la situazione, ricamando con sorprendenti gusto e perizia sul tessuto resistente ma un po’ consumato di Schaffer e impreziosendolo con assoli precisi ed arrangiamenti eleganti senza, per questo, risultare invadente o borioso. In aggiunta mi permetto di alzare il pollice anche per i testi delle canzoni, in alcuni casi davvero ben fatti.

L’incombenza di aprire le danze è affidata alla compattissima “Great Heathen Army”, introdotta da un coro oscuro e virile che esplode poi nella tipica arroganza chitarristica dei nostri, in cui Stu mette in mostra le sue doti canore cercando di prendere le distanze, per quanto possibile, da Barlow e Owens. La traccia svolge il suo compito in modo diligente, trasmettendo una certa dose di fomento battagliero, ma per tutta la sua durata si aspetta il cambio di passo decisivo, la cannonata che centri l’obiettivo e lo riduca in pezzi, che purtroppo non arriva, lasciandoci quindi un’opener grintosa ma riuscita a metà. Un arpeggio misurato apre la piratesca “Black Flag”, ma se vi aspettate melodie scanzonate condite da qualche “Ahr!” qua e là vi fermo subito: gli Iced Earth non sembrano interessati alla concezione disneyana del pirata, dipinto come un simpatico e spericolato furfante, e al pirate-metal sbarazzino che sembra andare per la maggiore di questi tempi, ma vanno al sodo tornando (e meno male!) al suo ruolo di sanguinario saccheggiatore più o meno prezzolato da questo o quel regnante, rinvigorendone musicalmente la figura con ritmi scanditi e incombenti, melodie robuste e un po’ di sana fame, il tutto coronato da un’ottima resa vocale. È giunta l’ora della ballad, sembra gridare ai quattro venti la melodia acustica di “Raven Wing”. Naturalmente stiamo parlando degli Iced Earth, quindi è difficile che una traccia di questo tipo non contenga in sé, tra una melodia malinconica e l’altra, qualche riff bello grasso; in effetti anche qui, dopo l’arpeggio di cui sopra, la canzone si irrobustisce passando da quasi-ballata a brano dalla forte connotazione anthemica, malinconico ma comunque grintoso che, sebbene piuttosto monolitico, trova nei fugaci ma provvidenziali interventi di Dreyer il proverbiale salvagente. La successiva “The Veil” promette più o meno lo stesso, con un inizio sognante ma avvelenato da linee melodiche sinistre che permangono per tutta la sua durata, ora in primo piano ora più sottotraccia, e che sebbene rinvigoriscano la canzone non le permettono di trovare la sua giusta dimensione finendo, alla lunga, per renderla piuttosto monotona. Dopo questa iniezione di malinconica minaccia i nostri si risvegliano dal letargo per aggredire l’ascoltatore con la quasi slayeriana “Seven Headed Whore”, in cui si divertono a spaccare le ossa come ai vecchi tempi mentre Stu, a seconda delle necessità, ringhia e declama come un ossesso. Tre salutari minuti di botte che valgono, da soli, buona parte del biglietto.
Un motivo disteso introduce la seconda parte dell’album, maggiormente concentrata su melodie più ariose e d’effetto e una certa resa anthemica della proposta dei nostri floridiani d’acciaio. Si comincia con “The Relic (Part 1)”, in cui il tono si fa più narrativo e tra i riff della coppia d’asce subentra una solennità che mi ha ricordato i Demons & Wizards. La pausa atmosferica nel finale consente a Stu di giocare con toni più dolci e compassati, sfumando poi nella strumentale “Ghost Dance (Awaken the Ancestors)”. Qui, tra melodie maestose e ritmiche scandite si fanno largo sprazzi della vocalità sciamanica dei nativi americani per profumare di ipnotico misticismo il tutto, mentre le chitarre sono lasciate libere di tessere la loro trama sorrette da una sezione ritmica puntuale e precisa. L’unico punto dolente, a voler guardare il proverbiale pelo nell’uovo, sta nella sua lunghezza, che secondo me poteva tranquillamente essere sforbiciata di uno o due minuti senza per questo perdere nulla del suo fascino. “Brothers”, introdotta da una melodia malinconica e un incedere vocale molto sentito, si sviluppa come mid-tempo trionfale, seppur finendo per rivelarsi a mio avviso uno degli episodi meno convincenti dell’album per via di un andamento troppo ruffiano. “Defiance”, nonostante parta da presupposti simili, ha il grande merito di crederci di più e di piazzare qualche zampata assai più incisiva, pompando il tasso di aggressività e pathos quanto basta per scrollarsi di dosso la puzza di easy-listening che aveva ammorbato “Brothers” e portarsi a casa il risultato. Chiude l’album la lunga e trionfalissima “Clear the Way (December 13th, 1862)”, riguardante la battaglia di Fredericksburg e, più precisamente, l’assalto nei pressi della cresta nota come Marye’s Heights: l’amore di Jon Schaffer per la storia americana è cosa nota e ben documentata, e di certo la storia della Guerra Civile occupa un posto speciale nel cuore del chitarrista. Questo amore traspare da ogni secondo della canzone, in cui il mastermind infonde tutti i tratti più caratteristici del gruppo: inizio in sordina per creare aspettativa, tempi quadrati, riff muscolari e melodie maschie e sfacciatamente pompose, rallentamenti e dissolvenze, rumori di battaglia e cori carichissimi di pathos, il tutto condito dall’ottima prova di Stu. L’amalgama degli elementi sopracitati contribuisce a dar vita a una traccia notevole nella sua, diciamo così, patriottica (seppur mascherata) e romantica visione: eroica, aggressiva e al tempo stesso incredibilmente accattivante, “Clear the Way” si candida prepotentemente al ruolo di gioiello dell’album e chiude “Incorruptible” con una bella raffica di fuochi d’artificio. Ciononostante, se devo dirla tutta, da quest’album mi aspettavo di più. Non fraintendetemi, “Incorruptible” è un buon album, solido e onesto (come si evince dal voto qui sotto) e dotato di alcune ottime canzoni, ma troppo altalenante nel suo sviluppo per reggere il passo con i due ottimi album che l’hanno preceduto, rispetto ai quali si piazza, quindi, un gradino sotto.

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