Recensione: Into A Pyramid Of Doom

Di Andrea Poletti - 11 Agosto 2016 - 2:14
Into A Pyramid Of Doom
Band: Into Coffin
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Amanti del death doom, quello vero, viscerale, oscuro, decadente e sulfureo venite a me e segnate con carta e penna questo nome: Into Coffin. Questi ragazzi seppur giovani e spavaldi sanno il fatto loro e con questa nuova prima uscita di alto spessore artistico riescono a portare a compimento un’ingrato lavoro: creare il disco death doom perfetto se idealizzato per quello che è la proposta in essere. Questo primo full-lenght ufficiale sia chiaro che non inventa nulla, non c’è niente di nuovo che non sia già stato sentito, ma è scritto maledettamente bene e rende alla perfezione l’idea di morte e disperazione che risiede alla base di ogni album di questo adorabile sottogenere. 

Le basi stilistiche da cui prende forma “Into a Pyramid of Doom” risiedono all’interno di band quali Incantation, Disma, Dead Congregation e Funebrarum, gruppi che negli ultimi anni e decadi hanno nel loro piccolo plasmato il suono e delineato un solco comunecreando il futuro del genere, anche se pressochè monolitico e stantio. Certamente le radici da cui tutto prende forma emergono prepotentemente, la scuola anni 80 e 90 miscelata con la contemporaneità, cerca di venire fuori attraverso melodie e riff accattivanti che tendono spesso all’apertura del suono, riuscendo lungo ogni brano a non stancare mai e mantenendo l’attenzione sempre alta. Un piccolo breviario del death doom in base alle sue caratteristiche più intransigenti e dogmatiche eseguito alla perfezione; prendi l’arte e mettila da parte, questo è ipoteticamente il motto degli Into Coffin. Non è facile descrivere queste musiche, questi abissi che ribollono come un grande pentolone di cinquantacinque minuti; l’ansia, l’angoscia, la frustrazione e la fine della vita sono i tratti preponderanti che riecheggiano vertiginosamente minuto dopo minuto sino al varcare della notte. Cinque brani, di cui uno strumentale, lunghi, lunghissimi, quasi al limite dello sfinimento grazie alla ‘Titletrack’ e alla quarta ‘The Deep Passage For the Infinity of the Cosmos’ magnificamente congeniate e dinamiche al punto giusto. Un vortice di carbone nero pronto a soffocare anche il raggio più intenso di luce. L’impatto prevale sull’atmosfera, la botta sonora vista attraverso il calo drastico delle tempistiche che delinea una volontà ben chiara: più si suona lenti, più si crea sofferenza. Come già comprensibile non v’è un brano che spicchi sugli altri in termini di songwriting, ma la forza di “Into a Pyramid of Doom” sta tutta qua, essere nel bene o nel male un pugno in faccia che non da adito a speranze: prende o lasciare, muori o vieni ucciso. Non c’è salvezza oltre queste note e questi growls. Ottima la produzione, che riesce a rimanere fedele alla causa senza strafare, portando a vivere a pieni polmoni l’esperienza che viene ad emergere lungo questi fragili sussulti di vita. Probabilmente qualche cambio di stile in più lungo la tracklist sarebbe stato apprezzato, probabilmente ancora manca la verve che fa rimanere questo album un buon album e nulla più, ma ci si lamenta del brodo grasso, si rimane sempre soddisfatti oggigiorno ad avere roba di questo calibro. Probabilmente saremmo tutti più contenti. Probabilmente…

Consigliato a tutti coloro che vedono nella stagione estiva il male di vivere, a chi vive perennemente in conflitto tra delirio esistenziale e malessere condiviso; un album di non facile digeribilità ma che se assorbito ed assimilato al meglio potrà regalare forti dosi di puro death doom come raramente accade. La strada è in discesa per gli Into Coffin e noi siamo lieti di supportarla. Applausi.

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