Recensione: Intrinsic

Di Stefano Burini - 5 Dicembre 2012 - 0:00
Intrinsic
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2012
Nazione:
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65

Realtà molto particolare, eppure piuttosto quotata all’interno della nicchia del cosiddetto metal meshugghiano (o, per gli amici, djent metal), i The Contortionist tornano a farsi vivi  con un nuovo lavoro dal titolo “Intrinsic”, a distanza di due anni dall’uscita del debut album “Exoplanet”.

La band nasce nel 2007 ad Indianapolis e, dopo due cambi dietro al microfono, la line up raggiunge la configurazione attuale, con Jonathan Carpenter nelle vesti di cantante e tastierista, Robby Baca e Cameron Maynard in quelle di chitarristi e Christopher Tilley e Joey Baca nei ruoli rispettivamente di bassista e drummer. Ci sono poi voluti ben tre demo, “Sporadic Movements” (2007), “Shapeshilter”(2008) e “Apparition” (2009), per riuscire ad ottenere l’agognato deal con la Good Fight Entertainment, label di medio-piccole dimensioni operante in campo metal e hardcore, e per giungere allo status di promessa dell’Heavy Metal del nuovo millennio.

Saranno le comuni origini geografiche o, forse l’età o, ancora, le sonorità con cui i cinque yankee si dilettano, eppure la loro parabola può, per ora, essere accostata a quella dei conterranei Periphery: giovani band dalle grandi potenzialità, giunte alla ribalta con due coppie di album usciti in contemporanea ed entrambe ispirate, seppur in maniera differente, dal sound dei Meshuggah. Laddove, tuttavia, i Periphery aggiungono buone quantità di melodie spesso eteree e stranianti ma quasi sempre più che fruibili ed intelligibili, pur mantenendo gran parte della violenza tipica degli svedesi, i The Contortionist optano per un approccio più “soft”, andando a cucire qualche ritaglio di post-thrash/djent su di un’intelaiatura globalmente più orientata a certo prog rock. 

L’equilibrismo scelto dai ragazzi dell’Indiana non è in effetti dei più semplici, tale e tanta l’aggressività cieca e furiosa delle parti vocali e delle sfuriate più estreme in rapporto alla calma estatica dei momenti più rilassati. La sensazione è di trovarci, nella gran parte dei casi, di fronte a dei patchwork in cui una serie di elementi che, presi a sé stanti, possono risultare generalmente convincenti, vengono invece tenuti insieme in maniera spesso forzata e poco riuscita. E’ il caso dell’opener “Holomovement” in cui parti strumentali melodiche molto interessanti e dal sapore progressivo (pur con i suoni “cibernetici” dell’industrial e del djent) cozzano in maniera, sicuramente voluta, ma davvero poco efficace con il growling (peraltro piuttosto monocorde) di Carpenter e con sfuriate di chitarra appiccicate in maniera troppo netta, senza creare un opportuno climax emozionale a sostegno di tale scelta di stile. E si tratta, purtroppo, di un leit motiv che si ripete con troppa insistenza all’interno di tutto “Intrinsic”, andando a gravare in maniera sensibile sulla fruibilità di composizioni che risultano piuttosto onerose da ascoltare.

I momenti migliori di “Intrinsic” possono essere rintracciati nelle parti melodiche in cui Carpenter ha la possibilità di mettere in evidenza un cantato clean personale e riuscito e, più in generale, laddove i The Contortionist riescono a dosare al meglio potenza e melodia e ad inglobare ulteriori influenze che risultano davvero pertinenti all’interno della loro proposta. Due esempi su tutti, l’ottima “Cortical”, aggressiva e cangiante ma non schizofrenica, non lontano da certe cose dei primi Periphery o la conclusiva “Parallel Trance”, una sorta di ambient futurista ed etereo che non può non richiamare alla memoria certe cose del Vangelis epoca Blade Runner.

Per il resto, tante composizioni sulla carta ambiziose e colme di momenti interessanti alle quali manca, tuttavia, l’amalgama in grado di trasformare un insieme di gustosi ingredienti in una pietanza vera. Alcuni pezzi appaiono più riusciti, come la townsendiana “Feedback Loop”, una delle migliori nonostante le invadenti tastiere a fare da contrappunto al riffing arcigno, o la notevole “Dreaming Schematics”, dal bel guitar solo, mentre altri veicolano l’impressione che i The Contortionist spesso esagerino con la carne al fuoco, come nel caso delle convulse “Casuality” e “Geocentric Confusion” o della scoordinata “Sequential Vision”. In ogni caso a dominare è la percezione del disordine ed è una sensazione negativa, in quanto probabilmente non cercata né voluta ma originata da una possibile scarsa chiarezza d’intenti (o di mezzi espressivi) di fondo. E nemmeno “Anatomy Anomalies”, una delle più progressive in scaletta, o l’inutile scheggia di ultraviolenza djenty intitolata “Solipsis” modificano in alcun modo le valutazioni espresse finora.

Un vero peccato, perché i The Contortionist hanno delle indubbie qualità strumentali e anche svariate buone idee, ma a mancare è quel quid in grado di donare ad ogni canzone una propria identità e unitarietà all’interno di un quadro che appare, per ora, disorganico nel suo complesso. Rimandati alla prossima, per quanto delle ottime basi di partenza su cui continuare a lavorare ci siano tutte.

Stefano Burini

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