Recensione: Invictus

Di Gianluca Fontanesi - 23 Luglio 2015 - 21:55
Invictus
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2015
Nazione:
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72

In attesa del nuovo disco dei Nile, che speriamo vivamente sia migliore di At The Gate Of Sethu, possiamo sollazzarci nella calura con questo primo lavoro solista di George Kollias, batterista della band statunitense. Le premesse per un’ottima opera ci sono tutte e vengono per la maggior parte ripagate; sono pochi i difetti presenti in Invictus e, anche se rilevanti, non inficiano più di tanto la qualità del prodotto che risulta comunque molto buona. Stiamo ovviamente parlando di un disco death metal che si può sì definire moderno ma con un occhio di riguardo a ciò che è stato e ai capisaldi del genere.

 

“I Rise from the Dead marching against their fate,

spreading the Fire to those who stand against my will

those who call my name: walk forth!

You are who lets the darkness grow beyond to the stars

Pray for Divinity!

Spread the sickness!

Rise in vastness!

Invictus!”

 

Il disco si presenta con queste parole e mette praticamente tutte le carte in tavola fin dalle prime note. Il sound deve tantissimo ovviamente ai Nile e soprattutto ai Behemoth: batteria ai limiti dell’umana comprensione, riffing sostanzialmente semplice con qualche apertura melodica e l’immancabile voce in growl che risulta predominante e senza nessun tipo di variazione.

Invictus non è un concept album ma contiene storie e tematiche separate e il buon George qui suona tutto dimostrando non solo di essere un fuoriclasse del drumming estremo ma anche un polistrumentista in grado di creare buonissima musica. Sue anche le linee vocali che sono totalmente in growl e monocorde ma allo stesso tempo più che adatte alla proposta; un po’ più di varietà non avrebbe fatto di certo male, ma col senno di poi sarebbe onestamente risultata inadatta. Le noti dolenti del disco non sono molte: si può partire dall’originalità che un po’ scarseggia, e che non sembra in ogni modo essere stata la ragione alla base della genesi dell’opera, fino ad arrivare a un riffing in certi frangenti troppo semplicistico e in certi casi al limite del plagio (Voices ha tutto il principale impianto ritmico/chitarristico identico a quello di Puritania dei Dimmu Borgir, ad esempio). La produzione, neanche a dirlo, è ottima e raggiunge un cospicuo livello di “pacca”, con l’unico annoso difetto della maggior parte dei dischi estremi: non si sente il basso e, cosa alquanto strana, non se ne sente la mancanza. Invictus è un concentrato di sonore legnate e ha dalla sua il fatto di essere concepito, suonato e presentato talmente bene da risultare godibilissimo e con un discreto indice di longevità. Non è un capolavoro ma nemmeno un disco da considerare piatto e senz’anima; certo, i suoni troppo puliti e antitetici al marciume di certe branche del genere potrebbero far storcere il naso ai puristi, ma non è il caso di crucciarsi più di tanto. Sono qui presenti tantissimi ospiti tra cui i quasi scontati Karl Sanders e Dallas Toler-Wade dei Nile,  Theodore Ziras, George Emmanuel e tanti altri utilizzati esclusivamente per le tracce di chitarra solistiche sparse per i brani. L’opera prima del lungo crinito greco convince quindi, garantendo parecchi momenti di sano headbanging uniti a cuore e soprattutto onestà. La versione deluxe del disco in digipack contiene 4 bonus track che nulla aggiungono al prodotto finale; si tratta per lo più di demo o versioni alternative di una manciata di pezzi in scaletta. Poca roba.

Concludendo, ci sentiamo quindi di consigliarvi l’ascolto di Invictus, e ne raccomandiamo l’uso a volume massimo durante un passaggio in macchina davanti a un bar di fighetti mentre fanno l’aperitivo.

 

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