Recensione: Ironshore

Di Daniele D'Adamo - 12 Gennaio 2017 - 19:07
Ironshore
Band: Oni
Etichetta:
Genere: Djent 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Nel folklore giapponese, Oni è un mutaforma di natura maligna, un demone in grado di assumere molte sembianze al fine di diffondere dolore e miseria.

Nel mondo reale, gli Oni sono una band canadese nata nel 2014 ma che ha rapidamente scalato i gradini della carriera artistica dando alle stampe, dopo soli due anni, il debut-album, “Ironshore”, targato nientepopodimeno che Metal Blade Records. Un percorso che, apparentemente, ha saltato tutte le tappe di un percorso di crescita tecnico-artistica necessario per giungere ai massimi livelli del metal estremo internazionale. Apparentemente, poiché gli Oni sono evidentemente dotati di grande talento, giacché “Ironshore” identifica con certezza quale sia la loro filosofia musicale.

Una filosofia che segue le evoluzioni di Oni, il mutaforma, cioè imperniata sul concetto di variabilità e imprevedibilità. Un concetto già insito nel djent, di cui i Nostri rappresentano senz’altro una delle migliori raffigurazioni attuali. Certamente l’innovativo utilizzo dello xilofono elettronico, lo xylosynth, dona al sound del quintetto canadese una particolarità di unicità. Ma non è solo questo.

Gli Oni riescono a mischiare fra loro una quantità impressionante di note, accordi, scale, accidenti musicali, stop’n’go, e quant’altro possibile in termini di suono, o quasi, senza perdere mai il filo del discorso. Le song sono song, cioè. Una ben distinta dall’altra, che non si somigliano neppure lontanamente, pur essendo pedine di una medesima dama. Con, in più, quando serve, delle belle sferzate melodiche (‘Eternal Recurrence’), antitetiche in tutto e per tutto all’andamento generale del platter, imperniato su un sound duro e asciutto, preciso e tagliente, tipico del deathcore, insomma. Non a caso parente assai prossimo al djent. Le harsh vocals di Jake Oni – magnifico, anche, nelle clean – , poi, non concedono niente a nessuno, in termini di aggressività e di energia devastatrice. Così come i riff granitici, dissonanti, molto, molto elaborati della chitarra di Brandon White, che hanno il difficile compito di legarsi alla miriade di note emesse dalle magiche bacchette di Johnny DeAngelis. Anche la sezione ritmica è dannatamente rocciosa: basso e batteria fanno male, spesso e volentieri, divagando su tecnicismi che, pure loro, rientrano nel contesto generale dell’opera, in quanto non a sé stanti.

Una bravura che, ed è qui il segreto del successo degli Oni, non soffoca la creatività e l’immaginazione. I brani scorrono via relativamente con piacere, preso atto che non è possibile ascoltare distrattamente “Ironshore” a mò di sottofondo à la Easy Rider. Al contrario, l’enorme, immane lavoro svolto dal combo dell’Ontario necessita di concentrazione e devozione, per essere apprezzato come deve.

Come, per esempio, la suite ‘The Science’, assieme pesantissima mazzata sui denti, trasognante esplorazione del pensiero umano, irrequieta sequenza di micidiali breakdown tritaossa, vampata di infuocati soli di chitarra, rapidissime scorribande del xylosynth e… tanto altro ancora (spruzzate di jazz compreso). Dimostrazione lampante che gli Oni sono in grado si sostenere alti livelli di competitività sia in termini di esecuzione ma, soprattutto, di composizione. Riuscendo a conciliare con naturalezza ogni aspetto di un moderno, anzi modernissimo, full-length di djent.

Poco altro da scrivere, moltissimo da ascoltare.

Coraggiosi e… bravi!

Daniele D’Adamo

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