Recensione: Isa

Di Daniele Balestrieri - 10 Marzo 2005 - 0:00
Isa
Band: Enslaved
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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79

Non è facile recensire un album come questo. Anzi, a dire il vero è diventato sempre più difficile recensire il black scandinavo di mainstream, un sintomo lapalissiano dei tempi che scorrono alla velocità della luce trascinando nel fiume l’immenso potpourri di tradizione, interpretazione e rivoluzione della scena scandinava. È vero che il cuore pulsante del black di antica scuola, di quella scuola germinata durante i leggendari anni dell’inner circle, sta vivendo una seconda fase di giovinezza grazie al proliferare di decine e decine di ottime band underground, ma è anche vero che l’occhio dei media non può non scrutare tra le vestigia degli antichi colossi rimasti in piedi dopo tutti questi anni per scoprire la direzione generale in cui tira il vento.

È questo il caso degli Enslaved, che sul finire del 2004 inanellano il loro ottavo full-length e scolpiscono un’altra tacca nell’evoluzione della poliedrica band sempre capitanata dall’inossidabile Ivar Bjørnson. Finora bisogna dire che gli Enslaved si sono sempre salvati dal patibolo unanime, conquista notevole in un periodo come questo in cui la critica è diventata sempre più difficile da appagare e il pubblico si annoia sempre più facilmente per colpa dello scriteriato scaricamento di mp3, fattore che sta impercettibilmente, ma progressivamente, cambiando il mercato e i requisiti di gradimento. Non è un mistero che parte dei fans degli Enslaved detesti Frost ed Eld, un’altra parte Mardraum (al tempo definito “punto di non ritorno”), e un’altra ancora detesti Below the Lights e Isa. Ho sentito dire di Eld che è “inascoltabile” e “geniale”, di Monumension che è “una porcata” e “magico” e di Vikinglir Veldi che è un “capolavoro” e una “fregatura”. Insomma, i fans non si sono mai messi d’accordo sul caso Enslaved, probabilmente perché essendo una band attiva da così tanto tempo (13, 14 anni), hanno raccolto nuove palate di fans a ogni uscita, fans che ovviamente erano attirati dall’Enslaved del momento e che quindi non concepivano gli Enslaved differenti dei tempi andati – e futuri.

Isa quindi ha un compito ingrato da portare a termine: creare il capolavoro pacificatore. Ovviamente solo il prodotto di un pazzo potrebbe generare un album che insieme è black e heavy, ambient e progressive. Un pazzo, oppure un gruppo di visionari come Grutle Kjellson + Ivar Bjørnson e la loro schiera di sessionist come Ofu Kahn, il cantante folk Stig Sandbakk e due mostri come Nocturno Culto e Abbath. Il risultato? Isa, “I Ghiacci”.

Partendo dal punto in cui il piacevole ma deludente Below the Lights si era fermato, Isa inizia a costruire delle strutture più articolate, tentando di raggiungere la vetta mediante lo sfruttamento di quelle sonorità avantgarde/progressive esplose recentemente in Norvegia. La dichiarazione d’intenti è palese fin dall’intro, “Green Reflection“, un minuto di atmosferica preparazione a “Lunar Force“, la canzone che definirei Below The Lights 2.0 . Siamo di fronte a un riff roccioso e ben architettato, al torno al quale ruota un’intera canzone ottimamente screamata e growlata dal fenomenale duo Abbath/Grutle, una canzone che passa dal black più blatante a intermezzi quasi heavy (grazie a toni quasi alla Lemmy), fino a raggiungere staffilate prog/avantgarde coreografate da improvvisi stacchi e cambi di tempo.

All’ottima Lunar Force segue l’eccellente title track, e mia traccia preferita, “Isa“: con grande maturità, il quintetto norvegese conta ancora una volta su un riff eccellente e un cantato efficace, grande mix di scream, voci pulite e intermezzi variegati, sempre affogati in un mid-tempo scevro dalla velocità più brutale del black di Frost e dai rallentamenti ambient talvolta soffocanti di Below the Lights. Da “Ascension” in poi il CD è tutto un ribollire di idee, le stesse idee già ascoltate nelle prime due canzoni, ma rimescolate ogni volta in maniera diversa. Isa è una continua scoperta, una ricerca del nuovo, del raffinato, del bello, come nella splendida, sostenuta, martellante “Secrets of the Flesh“, una strumentale come non ne ascoltavo dai loro commoventi tempi di Norvegr, mentre un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato a “Neogenesis“, un vero e proprio esperimento che potrebbe quasi definire il genere di black progressive: undicimi minuti composti da un’apertura quasi pop, da un intermezzo soffocato in screaming, una pausa di gran delicatezza di stile Pink Floyd, Genesis, in cui l’album sembra cambiare totalmente, diventare un cerbero a mille teste, mentre faticosamente e le ultime chitarre zanzarose cedono il passo a quella drammaticità spinta tipica del “rock del tramonto”, delle grandi star, dei mostri sacri degli anni ’70, tanto che nessuno si sognerebbe mai di ricondurre una simile traccia agli Enslaved, nemmeno sotto tortura.

Sorpendente, emozionante, difficile dire se cardine per i prossimi lavori, questa Neogenesis cede il passo a una stanca e minacciosa Outro, “Communion“, che teoricamente dovrebbe proseguire non si sa dove, visto che la tracklist del CD indica che è un “estratto”.  Non so bene se è vero che abbiano deciso di inserire una traccia incompleta su un loro CD (per di più in edizione limitata, come quello oggetto di questa recensione), ma so anche che esiste una fantomatica edizione di ISA in 2 CD – al momento priva di riscontri.

In tutti i casi, un alone di mistero in una band già di suo fosca e mutevole non fa che donare altro fascino a un album peculiare come questo. La veste grafica è curata maniacalmente, così come lo splendido libretto. Tutto è al suo posto in Isa, eccetto la solidità. L’album è decisamente disgregato, poco omogeneo, e tenta di far presa su uno zoccolo di fans che obiettivamente ancora non si è formato. Un album pioniere come lo può essere stato Linear Scaffold dei Solefald, Sham Mirrors degli Arcturus o Quintessence dei Borknagar (tutti chiaramente di scuola norvegese), ma privo di una monumentalità equivalente. Comincia a bomba, con due tracce eccezionali, ma inizia lentamente a perdersi in un arzigogolio continuo cambi di tempo, di cambi di voci, di stili, di generi, rispettando la progressione della propria storia ma non la progressione dell’album nella sua singolarità. È un album da scoprire con tempo e dedizione, è un album da assaporare a patto di essere abbastanza recettivi: può darsi che nemmeno con 1000 ascolti riuscirete a trovarne la chiave di lettura, e vi chiederete se esiste sul serio. Personalmente trovo che sia riuscito solo in parte, riuscendo persino irritante laddove non mantiene lo standard: è il caso delle trascurabili, a mio giudizio, “Bounded by Allegiance” e “Return to Yggdrasil“. Parte di quella critica affamata di complicazioni e di letture a strati degli album ha accolto Isa come un autentico capolavoro moderno; io personalmente vorrei ricordare a tutti che la musica non deve essere necessariamente una tesi di laurea sonora per lasciarsi apprezzare. Troppe complicazioni finiscono per far implodere il prodotto, e Isa mi ha fatto intravedere il bordo di questo pericoloso baratro, senza però caderci.

È inutile paragonarlo a Frost o a Vikinglir Veldi, lasciate perdere: quegli Enslaved sono morti e sepolti, e Isa è un prodotto nuovo, dei nuovi Enslaved, degli Enslaved usciti dal bozzolo, che hanno digerito la lezione del black e l’hanno rimaneggiata a quel modo che solo i grandi artisti sanno creare.

Tracklist:

  1. Intro: Green Reflection
  2. Lunar Force
  3. Isa
  4. Ascension
  5. Bounded By Allegiance
  6. Violet Dawning
  7. Return To Yggrasill
  8. Secrets Of The Flesh (Instrumental)
  9. Neogenesis
  10. Outro: Communion (Excerpt)

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