Recensione: Kärgeräs – Return From Oblivion

Di Stefano Santamaria - 8 Febbraio 2017 - 0:00
Kärgeräs – Return From Oblivion
Band: Root
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Attivi dal lontano 1987, i cechi Root fanno parte di quelle realtà della seconda ondata del black metal che seguiva le orme di Venom e Bathory, cercando di proporre qualcosa di nuovo, quasi si potesse parlare di seconda new wave del filone.

 Il sound di questo storico progetto è con gli anni sempre stato mescolato all’elemento heavy metal, sottolineando l’aspetto epic. Tematiche occulte rappresentate da voci ed armonie che ci prendono per mano ad un’ascesa di evocativi ma oscuri presagi. Fascino del mistero, di ciò che sfiora l’horror e lo spiritismo.

I Root hanno un riconoscibile marchio di fabbrica, unendo la presenza doom dei Candlemass, al misticismo di King Diamond, ed alla personalità dei Celtic Frost. Tanti paragoni, per un progetto che indubbiamente riesce da sé ad essere riconoscibile, ma senza forse raccogliere il meritato successo e seguito.

Al di là di questi aspetti, possiamo certamente dire che il full-length ruota intorno la personalità di Big Boss, unico membro rimasto dell’originale line-up, la cui voce è caratterizzante, e si sposa perfettamente con le ambientazioni.

Return from Oblivion” incarna in qualche modo il suo stesso significato, un ritorno dall’oblio fatto di una nuova speranza, nuove energie che ci trasmettono un’innovata consapevolezza. Oscura serenità che si avvicina ad un cielo plumbeo solo per tuffarsi con maggior vigore in un gorgo nero pece. Rituale ipnotico sfuma le immagini di fronte a noi, susseguirsi di sulfuree sensazioni che inibiscono i sensi. Molto della scuola doom epic si traduce in strutture che tanto ricalcano quel filone, quanto spaziano nel black metal più profondo. Nera fiamma, poiché non parliamo solo di suoni, ma di attitudine vera e propria che tutto fagocita, riempiendo di tetri presagi l’intero lavoro.

Nel full-length non ravvisiamo tecnicismi particolari, e non è certamente il virtuosismo ciò che i Root vanno cercando. Parimenti, è la personalità che regna sovrana, perché è indubbio, piaccia o non convinca il lavoro, che i polacchi abbiano un loro precipuo stile che, nel corso degli anni, ha saputo anche evolvere. Ossianici e poi cupi, gli artisti regalano un disco decisamente all’altezza del loro passato, restando nel complesso piuttosto minimali, ma non per questo scevri di fascino ed emotività.

Stefano “Thiess” Santamaria

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