Recensione: Kaleidoscope

Di Tiziano Marasco - 28 Gennaio 2014 - 0:45
Kaleidoscope
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Anno: 2013
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80

Va detto che il recensore in questione non aveva particolarmente gradito il prosopopeico Whirlwind, ascolto decisamente estenuante anche per palati avvezzi al prog più spinto. Ma in questo può essere complice il fatto che al sopracitato recensore non sono mai andati particolarmente a genio i one track album, o comunque, le composizioni di durata superiore ai 40 minuti. Pezzi che nascondono solitamente una malcelata voglia di strafare, quando non manie di onnipotenza, ma in ogni caso tendono inesorabilmente a perdersi nei meandri di se stesse. Almenno finché gli Ayreon non avessero dato prova del contrario.

Ciò detto, veniamo a questo Kalewidoscope, a prescindere dagli esiti, una delle bombe progressive di questo 2014. Gli attori di questa opera li conosciamo assai bene. Un Pete Terewas al basso pienamente assorbito dai Marillion. Un Neal Morse più in forma che mai. Un Portnoy a piede libero ed un Roine Stolt sempre imprevedibile, come peraltro dimostrato anche in occasione dell’ultima prova dei Flower Kings, decisamente il lavoro meno pedissequo nel seguire i canoni musicali della sua band madre.

A presentare, o meglio a non presentare Kaleidoscope, ci aveva pensato il singolo Shine. Pezzo buono ma disarmante nel suo voler essere accademico e pedante nel seguire gli schemi della prog-ballad a più voci, presentando Neal nella prima strofa, Roine nella seconda, Mike nella terza e lasciando ad un limpido assolo dello svedese il compito di chiudere. Bello, ma non straordinario.

Venendo al disco, notiamo subito una struttura classica. Una suite apripista, tre pezzi morigerati, un gran finale. La suite apripista, Into the Blue si mostra subito come continuativa delle linee di Whirlwind. Un’apertura con orchestra magna in pieno stile Morse che rapidamente si trasforma in una sequenza di riff quasi hard rock e procede in meandri acidi come nella tradizione Flower Kings, prima di introdurre l’ospite d’eccezione Daniel Gildenlöw, qui presente anche in veste d‘autore. Nel analizzare a fondo Into The Blue possiamo notare come lo svedese assieme a Portnoy siano gli elementi più importanti nell’equilibrio attuale di questo disco. Il primo infatti si concede quelle divagazioni acide da tempo accantonate nel nuovo corso dei Flower Kings, il secondo invece spende grande energia nell’appesantire in varie riprese il sound del supergruppo.

Saltando a piè pari Shine, ecco Black as The Sky, pezzo groovoso che ricalca per ruolo mystery train e che in un attimo convince testa, piedi e culo grazie a   un ritmo incalzante e decisamente psychedilico. Ancora Stolt sugli scudi e grandissima attesa per le imminenti esibizioni marzaiole del tour europeo. Viene poi Beyond The Sun, che ricopre il ruolo di Bridge Across Forever, canzone desertica, desolata, piena di speranza, ma pure resa rigogliosa da tastiere yessose languide.

La conclusiva title track si rifà invece sugli schemi di Into the Blue, mantenendosi fedele al suo nome si rivela un vero Kaleidoscopio sonoro, nonché forse  la miglior traccia del lotto. E ci offre una Black Gold (III) che è sicuramente il momento più appassionante, senza nulla togliere a Ride the Lighting (II e VII). E viene sempre da chiedersi come facciano a mettere assieme simili meraviglie comunicando via mail.

Insomma Kaleidoscope riporta i Transatlantic alla forma degli esordi, con un leggero sopravvento stilistico di matrice svedese sulla componente Californiana. Ad ogni modo, un deciso chiaro passo in avanti su The Whirlwind, o meglio, un ritorno alla normalità (per chi scrive). Seppur non ai livelli dei primi due, un disco d’alta scuola (e non poteva essere altrimenti), ma pure grande passione. Pensare che Shine è probabilmente il pezzo meno trascinante del lotto dovrebbe far riflettere sulle potenzialità espressive del transatlantico.

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