Recensione: Keep Moving

Di Stefano Burini - 15 Agosto 2013 - 17:50
Keep Moving
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Anno: 2013
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70


Se esistesse un premio Paraculo, in campo musicale l’edizione 2013 andrebbe con ogni probabilità ad Andrew Stockdale e al suo nuovo disco: “Keep Moving”, per la prima volta in solitaria dopo la messa in stand by dei Wolfmother.
 
Intendiamoci: il giovane rocker australiano ha talento ed una evidente (anche se fin troppo ostentata) conoscenza di tutto ciò che potremmo definire vintage rock: dai Led Zeppelin ai primissimi Black Sabbath, passando per Doors, Beatles, Rolling Stones, Free e Bad Company. D’altro canto è altresì evidente come nella sua musica non ci sia nulla (ma proprio nulla!) di vagamente nuovo o quantomeno non già sentito qualche milione di volte da parte di tutte le band citate poc’anzi. Permane, inoltre, la perenne indecisione in relazione alle coordinate sonore da seguire, già tastata ai tempi di “Wolfmother” e, seppur in misura minore, di “Cosmic Egg”. Che i Wolfmother, infatti, flirtassero oltre che con Sabbath e Zeppelin anche con lo stoner, l’alternative e l’indie rock non è certo un mistero; tuttavia, più che voler conferire maggiore dinamismo ad una proposta di per sé non particolarmente brillante sul piano della  varietà, l’impressione è che Stockdale e compagnia cercassero di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, tentando di piacere un po’ a tutti senza scontentare nessuno.
 
Nulla di male, in generale, qualora la ripetizione di schemi e suoni classici o l’essere sospesi tra più correnti viaggino di pari passo con l’ispirazione al fine di dar vita a brani sì derivativi ma in grado di reggersi sulle proprie gambe. Il problema di “Keep Moving” è che questa delicata equazione non sempre trova soluzioni adeguate; fattore, quest’ultimo, che risulta peraltro accentuato da una tracklist troppo, troppo lunga (17 canzoni!) in cui le cattive sensazioni legate all’evidente disomogeneità di valore delle canzoni proposte viene acuita dal senso di noia che in più di un’occasione viene, purtroppo a galla.
 
Escludendo “Long Way To Go”, non particolarmente scarsa ma semplicemente un po’ moscia, la prima parte dell’album scorre abbastanza bene, pur in una fin troppo rigorosa unitarietà di stile che fa apparire molti riff come delle variazioni sul tema di uno stessa concezione di riff vecchia di ormai quarant’anni. Tra gli apici vale la pena citare l’ottima title track, decisamente più convincente e ficcante dell’opener in quanto a ritmiche e hookline melodiche, la serpeggiante “Vicarious”, dalle vocals ozzyane, e la doppietta composta da “Meridian” e “Ghetto”, due brani in cui le influenze stoner escono finalmente allo scoperto. Notevoli anche “Year Of The Dragon” (seppur un po’ ripetitiva) l’azzeccata ballad “Suitcase (One MOre Song)”, sulle tracce dei Rolling Stones acustici, delicata e vagamente psichedelica, la più atipica “Let Somebody Love You”, a metà strada tra Beatles e Led Zeppelin, imbevuta di ritmiche funk e di arrangiamenti degni dei vecchi King Crimson e, infine, la rock ‘n’ rolly “She’s A Motorhead”. Male invece il comparto ballad “rurali” nel quale, ad esclusione della citata “Suitcase” troviamo, una dopo l’altra nel finale, le snervanti “Country”, “Black Swan” e “Everyday Drone”: un poco azzeccato terzetto di canzoni mosce e decisamente giù di tono.
 
Completano il quadro le discrete ma non eccelse “Let It Go”, “Of The Earth” (un po’ “Immigrant Song” dei soliti Led Zeppelin, senza tuttavia il medesimo mordente e con l’Hammond in sottofondo che fa molto Doors) e “Somebody’s Calling”; tracce che risentono più di altre di una certa monotonia e della ripetitività di schemi e idee ormai sfruttati fino all’osso. La più che buona Bonus Track “It Occurred To Me” è, infine, un bel rock in grado di riportare un po’ di movimento in un finale altrimenti all’insegna dell’assopimento.
 
Luci ed ombre insomma: di talento, come anticipato ce n’è, tuttavia l’impressione è che l’adesione ad un certo tipo di immaginario (non solo sonoro, basta guardare copertina e booklet) sia tale, per Andrew Stockdale, da impedirgli di affrancarsi finalmente da una tradizione fin troppo ingombrante dal cui confronto non potrà che uscire, alla lunga, perdente.

Stefano Burini

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