Recensione: Keziah Lilith Medea (Chapter X)

Di Daniele D'Adamo - 5 Giugno 2017 - 0:00
Keziah Lilith Medea (Chapter X)
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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74

Unaussprechlichen kulten, cioè, culti innominabili, indicibili. In tedesco.

Loro, però, gli Unaussprechlichen Kulten, sono cileni.  “Keziah Lilith Medea (Chapter X)” è il quarto full-length di una carriera piuttosto lunga, cominciata nel 1999 vicino a Santiago.

Un moniker che dice molto, giacché riferito ai Grandi Antichi della mitologia lovecraftiana. Creature innominabili, appunto. Che, tuttavia, hanno abbondantemente fornito l’ispirazione a intere generazioni di metalhead, dalla leggendaria ‘The Call of Ktulu’ dei Metallica di “Ride the Lightning” (1984), sino a oggi. Tematiche non proprio originali ma sempre e comunque affascinanti, soprattutto quando, come nel caso in ispecie, si riferiscono a tre donne rappresentanti altrettante icone del male, come Keziah, Lilith e Medea.

Con ciò, il death metal assai ortodosso anzi primordiale dei Nostri non può che recepire il mood delle liriche risultando abbondantemente contaminato dal black. Atmosfere pertanto cupe, fosche, oscure. Dalle quali scaturiscono sensazioni ancestrali che rimandano a una costante sensazione di pericolo. Lo stile degli Unaussprechlichen Kulten, cioè, pur non essendo particolarmente originale, è senza dubbio dotato di intensa capacità immaginativa. Sicuramente gli incipit ambient delle song (‘Sabbatical Offering’) contribuiscono efficacemente a ricreare un’ambientazione sotterranea, tetra, morbosa.

Seppure efficace quando i ritmi delle battute calano a sfiorare il reame del doom, il quartetto di Recoleta dà il suo meglio quando, viceversa, i BPM divergono per la tangente sfondando la barriera dei blast-beats (‘The Mark of the Devil’). Il sound diviene allora convulso, rabbioso, travolgente. A mò di marea nera, a ricoprire di mota tutti i barlumi di luce che posso trasparire da un cielo pesantemente plumbeo. Perennemente seviziato da tempeste di elettricità, tornadi di fulmini, roboanti tuoni soffusi. Così, a un ascoltatore che riesca a calarsi nello spirito degli Unaussprechlichen Kulten, si spalancano davvero le porte dell’inferno. Le chitarre di Joseph Curwen ed Herbert West (sic!) sono le trascinatrici del disco, anche perché lo stesso Curwen, in qualità di vocalist, è un po’ troppo monocorde, assestato su un growling bestiale ma monotono. Le due asce, al contrario, assieme, segnano parecchi punti a favore della formazione sudamericana, particolarmente in sede di ritmica, con dei main-riff capaci di scoperchiare una… tomba (‘Unholy Abjuration of Faith’).

Pure i singoli brani si dimostrano essere ben oltre la sufficienza, ciascuno dotato di una propria vita benché siano tutti immersi nella medesima melma fangosa. Forse manca il pezzo da novanta, cioè quel qualcosa in più tale da rendere un ensemble ottimo, purtuttavia “Keziah Lilith Medea (Chapter X)” si lascia ascoltare con piacere pur non essendo certamente dotato di melodiosità. Le sue caratteristiche, però, sono altre e riguardano il death nella sua espressione più arcaica e, in ciò, gli Unaussprechlichen Kulten raggiungono l’obiettivo di interessare gli appassionati.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

 

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