Recensione: King of the Distant Forest

Di Daniele Balestrieri - 26 Aprile 2002 - 0:00
King of the Distant Forest
Band: Mithotyn
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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84

È quasi imbarazzante dirlo, ma questo King of the Distant Forest sembra quasi un’istituzione suprema del Viking Metal. Generalmente i Mithotyn sono la prima band che viene in mente a sente parlare di questo genere così di nicchia, ancor prima magari di Bathory o degli Amon Amarth. Neanche a dire che è un album antico, perché nel 1997, anno della loro prima uscita, il Viking era già in piena espansione. Cosa nasconde questo album-simbolo dunque di questa defunta band svedese?

 

Principalmente si tratta di Viking di stampo black: la voce è una specie di mid-screaming roco che riporta indubbiamente al black di scuola scuola scandinava, però con una freschezza abbastanza originale, e degli spunti più solenni, quasi epici, che effettivamente gli danno quel tocco folkloristico, senza però cedere nulla in durezza. C’è da dire che le canzoni non sono trascinate, o eccessivamente annacquate come nel caso di alcuni album eccessivamente folk (einherjer). Al contrario epos e corpo si insinuano agevolmente tra i brani che ricordano band come In Flames, alle quali sono quasi un tributo in alcuni riff. L’album parte con la title track, Kings of the Distant Forest, che prepara il terreno a un black senza molti compromessi, cosa che potrebbe far storcere il naso a chi intende il viking anche e soprattutto rallentamenti e inserzioni corali di una certa entità. Fortunatamente l’album decolla facilmente con la bellissima Hail Me, la seconda, che vanta un composto coro maschile in una canzone solenne, dallo stampo decisamente fantasy, ma molto evocativa. Il rallentamento diviene ancora più evidente in From the Frozen Plains, che vanta un inizio quasi heavy, tanto da farci scordare le radici distorte e martellanti del black originario, finché non si insedia prepotentemente lo screaming selvaggio di Richard Martinsson, che contrasta e stride con la compostezza dei riff di una canzone lenta come questa, che contiene tra l’altro delle deliberate esasperazioni del campionamento vocale che fa pensare davvero a band d’altri tempi, oscure e maledette, nate e morte nell’underground norvegese ai tempi della scalata degli Emperor. Lasciato alle spalle questo exploit di partenza heavy e termine dichiaratamente black abbiamo un paio di canzoni di breve atmosfera e marcato accento black, come On Misty Pathways e The Legacy, che prendono direttamente spunto dalla precedente e che davvero non aggiungono nulla di nuovo… ricordo infatti al tempo dell’uscita l’album fu criticato per la sua debolezza centrale e non posso che constatarlo, purtroppo sono canzoni che per quanto ben congegnate arricchiscono poco il panorama globale di quest’album, e a questo punto ringraziamo la vera e propria rottura, quel piccolo gioiello in svedese di Trollvisa, una specie di strumentale (le uniche quattro strofe vengono cantate da tutti i membri della band negli ultimi dieci secondi) di ottimo gusto, ben congegnata, ben suonata e di grande atmosfera. Questo per preparare a una settima Under the Banner che davvero vanta una piccola cavalcata iniziale quasi power, quasi Hammerfall, quasi Rhapsody oserei dire, che sveglia decisamente l’ascoltatore; per fortuna si ricade immediatamente negli urli disperati del black e la canzone si ricompone, dosando con sapienza parti melodiche con parti più furiose, come poche volte accade nel corso di quest’album. Probabilmente è la più orecchiabile, e a me tra l’altro fa ricordare un’altra bellissima canzone degli Einherjer (A New Earth) alla quale sembra quasi un tributo, se non fosse che gli album sono praticamente usciti in contemporanea. Anche We March prosegue quella corposa vena melodica che rende le canzoni riconoscibili al primo istante, il che fa apparire quest’album quasi composto in due momenti, il cui momento di rottura sembra essere stato proprio Trollvisa. E giusto per rendere fede a quello che dovrebbe essere l’Album Viking per eccellenza, raggiungiamo The Vengeance, una canzone solenne, in cui la voce si trasforma da screaming a una specie di growling di medio livello, per dare tono e solennità a quella che, probabilmente, è l’unica canzone più tecnicamente viking di tutto quest’album, e gli assoli presenti nel suo corso non fanno altro che confermarlo. Da apprezzatore del growl (anche se a metà permane una strofa in screaming), la canzone è giunta per me come un diversivo piacevole e anche, se vogliamo, epico, visto il testo finalmente leggendario e crudo, come si conviene a un album di questo tipo. L’ultima cantata è rappresentata da un pezzo più leggero e veloce, quasi speed, (imperdibili le “sgasate”  sulle chitarre!), dal titolo Master of Wilderness, che tra l’altro è un classico degli album di questo tipo usciti in questo periodo, una specie di chiusura catartica in vista di In a Time of Tales, ultima traccia strumentale che riprende i temi portanti dell’album, immancabilmente aperta dalla vichinghissima arpa a bocca.

 

Cosa dire quindi di King of the Distant Forest. È un album strano. Strano fin dalla copertina, difficilimente interpretabile, e stranamente circondata da elaboratissime sciabole orientali. Personalmente lo trovo un buon album di black scandinavo registrato in maniera davvero superba per essere black, di buon tono e di buono spessore. A livello interpretativo fallisce un po’, i testi non sono il massimo dell’originalità, così come le trovate musicali e sceniche all’interno di tutta l’opera. Il che potrebbe anche non essere un difetto, ma nel 1998 inizia a diventare un po’ tardi parlare di prove tecniche. Black e Folk sono ancora distinti in maniera troppo netta (peccato, perché In a Time of Tales è un esempio eccellente di spirito vichingo nella sua essenza più pura), siamo lontani dalla maestria certosina e pomposa dei Falkenbach, dalla crudezza originale dei Månegarm o dalla palesissima dichiarazione di intenti dei Thyrfing. Come album Viking ha quindi dei buchi, come album black tanto di cappello. È come se ci volesse quella spinta in più. In una certa direzione. Ci vorrebbe proprio… Gathered Around the Oaken Table, per esempio.

 

Daniele “Fenrir” Balestrieri

 

TRACKLIST

 

1. King of the distant forest
2. Hail me
3. From the frozen plains
4. On misty pathways
5. The legacy
6. Trollvisa
7. Under the banner
8. We march
9. The vengeance
10. Masters of wilderness
11. In a time of tales

 

P.S. segnalo che nel digipack di King of the Distant Forest sono contenute quattro canzoni bonus, parte del loro demo del 1994 “Meadow of Silence” e sono

 

12. Ragnarokk (mai uscita)

13. Wisdom

14. In The Bower of Shadows

15. Meadow In Silence

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