Recensione: Kingdom of Horrors

Di Stefano Usardi - 2 Marzo 2019 - 10:01
Kingdom of Horrors
Band: Dimlight
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2019
Nazione:
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82

Uscita impegnativa, questa dei greci Dimlight. Attivi dal 2006, i nostri celebrano i dieci anni dal loro primo album, “Obtenebration”, presentando ai loro fan un cospicuo pacchetto – rilasciato per la verità in due fasi, tra la fine dello scorso anno e questi giorni – comprendente l’album “Kingdom of Horrors”, la cui trattazione costituirà il grosso della recensione che state leggendo, una colonna sonora intitolata “A Symphony of Horrors” e un altro album totalmente strumentale, “Realm of Tragedy”. In aggiunta, giusto per non farsi mancare niente, i nostri pubblicano “Bowels of Madness”, il racconto (scritto dal gruppo) che costituisce il soggetto intorno a cui si sono poi sviluppati gli album, e addirittura un gioco di ruolo, “Secrets of Irkala Kar”, per consentire agli appassionati del dark fantasy di muoversi nell’ambientazione oscura e deviata che i nostri sei ateniesi hanno creato, magari sfruttando proprio “A Symphony of Horrors” come ideale supporto per le sessioni di gioco. Prima di trattare il corposo pacchetto mi si permetta un plauso alla tenacia del gruppo, che dimostra una notevole ambizione e un piglio deciso. E ora, sotto con la musica!
Kingdom of Horrors” si presenta essenzialmente come un incrocio tra death e gothic metal, imbastardito da possenti orchestrazioni dall’intenso sapore cinematografico. Ritmiche poderose e chitarre grasse e graffianti vengono spezzate dalle fulminanti accelerazioni di scuola death, salvo poi adagiarsi su un tappeto sinfonico ora incalzante e ora maligno, ma sempre piuttosto enfatico, in cui si percepisce di tanto in tanto una certa decadenza latente. Su questo tappeto sonoro omogeneo e molto ben strutturato si incastona la coppia di voci che, nonostante l’ormai ultra-collaudato stilema maschio-growl/femmina-clean, trasmette la giusta carica grazie a timbriche azzeccate e un bell’affiatamento tra i due. Non sono un amante del growl, ma ciononostante ho apprezzato la resa ferina di Peter, anche se la mia preferenza è comunque andata al piglio al tempo stesso sfacciato, beffardo e pieno della voce pulita di Mora.

L’album inizia in modo dimesso, con oscure melodie che strisciano sinuosamente in sottofondo: il growl si impossessa della scena, guidando alla carica il resto del gruppo fino al sopraggiungere della voce pulita e, con essa, di spiragli musicali più sontuosi: “The Red King” si gioca bene le sue carte, alternando furia e calma suadente sotto l’occhio vigile della maestà sinfonica. “Beryl Eyes” parte propositiva, intrecciando melodie decadenti e riff serrati. Le due voci duellano su questo tessuto sonoro, tra maestosità e adrenalina, fino all’intermezzo centrale più lento ed inquieto. Il tasso di ariosità cinematografica della musica si mantiene piuttosto alto e prosegue con “We, the Bones”, introdotta da cori intimidatori. Le immancabili tastiere fungono da legante tra i due approcci vocali, mentre la canzone saltella tra un andamento rilassato, a tratti soave, e sfuriate improvvise ed insistenti. Il finale più trionfale allenta un po’ la tensione in favore di ritmi più scanditi, prima di chiudersi di nuovo con i cori che avevano aperto la traccia. Un piano inquieto ed effetti sinistri aprono “Into the Thrice Unknown Darkness”, ballata decadente dal retrogusto più canonicamente gothic. La strofa dimessa, in cui mi tornano alla mente i Mandragora’s Scream di “A Whisper of Dew”, si carica di enfasi durante il ritornello e di note più romantiche nel finale, per una canzone intrigante e flessuosa. Lo slancio possente e un po’ kitsch dei nostri esplode di nuovo con la scandita e maestosa “Beyond the Gates of Horror”: la canzone si mantiene su ritmi lenti, quadrati, inframmezzati solo di tanto in tanto da fugaci accelerazioni, indulgendo nella parte centrale in un altro intermezzo più dimesso dall’intenso sapore cinematografico. Il profumo di colonna sonora si avverte anche in “The Ecstasy of the Hunt” in cui, dopo un incipit in cui si colgono richiami ai Dimmu Borgir più inquieti, i nostri giocano con una tensione sonora mai sopita ma al tempo stesso tenuta sottotraccia, che si allenta solo nei brevi passaggi più ariosi. La stessa inquietudine sottile domina anche “Tower of Silence”, altro brano molto scandito la cui aura minacciosa cede spazio a una maggiore solennità durante i passaggi di voce pulita, più trionfale. Il finale insistente profuma di melodie arabeggianti, che in un attimo aprono la strada alla diretta “Serpents Pact” che, con i suoi 3:14, è la canzone più breve del lotto. Anche qui i nostri si mantengono sulle direttrici seguite finora, alternando riff quadrati e arcigni ad improvvise aperture melodiche dall’alto tasso di maestosità. “Lapis Animae” si apre in modo più soffuso, inquieto. Naturalmente basta poco ai nostri per tornare a picchiare con le loro possenti orchestrazioni, che in breve si impossessano della scena. La componente metal, per parte sua, non ci sta a cedere terreno senza lottare, e guadagna spazio pian piano macinando ritmi dinamici e riff frastagliati. La breve pausa che apre l’ultimo quarto serve al gruppo per prendere la rincorsa in vista del finale rovente, che in un attimo ci consegna “Bleeding Sunrise”. Anche qui il coefficiente cinematografico gioca un ruolo di primo piano nell’economia del brano, con melodie imponenti che si adagiano su un tessuto metallico grasso. L’intermezzo centrale, in cui le orchestrazioni prendono il sopravvento, torna a puntare sull’atmosfera prima di cedere il passo al climax finale, in cui l’oscurità incombente torna a far capolino in una veste nuovamente incalzante, prima di chiudere definitivamente l’album con un’ultima nota di tensione.

Veniamo ora al secondo album di questo corposo pacchetto, e che apre la parte completamente strumentale del trittico: “Realm of Tragedy” abbandona in toto gli elementi che hanno caratterizzato “Kingdom of Horrors” (enfasi sinfonica e coatteria death in primis) per farsi strada con la pacata e malinconica rilassatezza di un dark rock molto atmosferico e dalle soffuse nervature industrial. Largo quindi ad aperture melodiche delicate e sognanti, riverberate, drammatiche, in cui le chitarre donano quella consistenza leggermente graffiante che, di tanto in tanto, sferza le composizioni senza per questo far loro perdere il loro mood crepuscolare e disilluso. Cionondimeno, per tutta la durata di “Realm of Tragedy” si avverte anche una sottile aura di speranza cercare di contrastare, a volte con successo, altre volte no, il pessimismo cosmico inquieto e guardingo di cui sembra intriso tutto l’album. Davvero niente male.
A Symphony of Horrors”, invece, è una vera e propria colonna sonora, che abbandona anche la parte elettrica sfruttata nel secondo capitolo per dedicarsi solo al comparto sinfonico; le atmosfere tornano a farsi smaccatamente oscure, sinistre e minacciose, ma in aggiunta si nota, nonostante non manchino momenti maestosi, solenni ed epicheggianti, una notevole attenzione al mantenimento di una tensione costante nell’ascoltatore, così da rendere – o almeno credo – l’esperienza di gioco nei meandri di Irkala Kar decisamente immersiva. Niente da dire, quindi: anche in questo caso i nostri colpiscono il bersaglio, confezionando un lavoro intrigante e molto ben bilanciato.

Tirando le somme, questo trittico di lavori conferma una volta di più le capacità e soprattutto le ambizioni dei Dimlight, permettendo loro di spaziare a piacere nel medium musicale per diffondere il loro messaggio senza risultare comunque indigesti. Certo, una certa ridondanza ogni tanto si avverte, ma al netto di un lavoro così corpacciuto e denso qualche passaggio a vuoto mi sembra veramente poca cosa. Promossi.

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