Recensione: Kingdom of Sand

Di Stefano Usardi - 19 Agosto 2016 - 14:00
Kingdom of Sand
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Ritorno in grande stile per i milanesi Myriad Lights, che dopo cinque anni dal debutto “Mark of Vengeance” ed un paio di cambi nella formazione (arricchita dagli innesti provenienti da Furor Gallico e Highlord) si presenta al mercato discografico con questo “Kingdom of Sand”, introdotto dall’ormai “solita” copertina del prezzemolino Felipe Machado. L’heavy metal classico dell’esordio viene qui screziato da influenze più powereggianti e da qualche spruzzatina di musica mediorientale qua e là, ma le basi sono sempre quelle che ci piacciono tanto: musica dinamica e trionfale, il tutto condito da una sezione ritmica solida e quadrata e un’impostazione vocale che in più di un’occasione mi ha ricordato i Bejelit del fulminante esordio “Hellgate”.

Il sibilo del vento e una voce da sirena ci guidano verso un’intro dal sapore arabeggiante: la tensione sale con l’ingresso in scena degli strumenti elettrici e si arriva alla title-track, canzone che, come da copione, ben riassume il tenore dell’album. “Kingdom of Sand” è un brano trascinante ed eroico, supportato da chitarre robuste e tastiere ficcanti; il gusto per le melodie mediorientali torna a farsi largo nel brano in qualche breve e sporadico fraseggio, a volte solo accennato, prima del finale improvviso. La successiva “Abyssal March” affianca, ad una partenza frenetica, uno svolgimento molto più sontuoso e magniloquente soprattutto nel ritornello e nel breve rallentamento centrale, con linee melodiche piuttosto abusate ma sempre d’impatto ed un assolo quasi maideniano. Gran bel pezzo, immediato e roboante, che dice tutto quel che c’è da dire in meno di quattro minuti.
Rumori sinistri e un arpeggio inquietante introducono “The Deep”, che si sviluppa attraverso il continuo lavoro di una tastiera imponente, riff nervosi e una batteria trattenuta: su tutto ciò si adagia la voce di Andrea, che qui assume il suo tono più declamatorio per donare enfasi al brano, un bel mid-tempo molto solenne. Purtroppo, in più di un’occasione, proprio la voce mi è sembrata il punto debole di questa traccia: un po’ troppo enfatica e sopra le righe, a parer mio, al punto da scadere nell’ampollosità. Sbaglierò, ma sebbene si tratti di un punto di vista squisitamente personale devo dire di aver trovato la cosa piuttosto fastidiosa.
Dopo questo momento più raccolto ci pensa “The Grave Chant” a rimettere le cose in chiaro, ripartendo a spron battuto con una batteria lanciata a briglia sciolta e tastiere lasciate libere di fare il bello e il cattivo tempo, mentre il buon Francesco si consuma il palmo pavimentando la canzone con i suoi riff. Inutile dire che il pezzo è un classico power metal molto orecchiabile, impreziosito da un breve assolo classicissimo ma comunque d’effetto.
039 Lights” è, alla fine dei conti, un intermezzo strumentale abbastanza atmosferico ma tutto sommato anche piuttosto superfluo, utile solo come introduzione alla successiva “Mirror”, l’altro mid-tempo dell’album ma caratterizzato da una partenza sognante e un incedere più rilassato, meno carico della solennità che aveva contraddistinto “The Deep”. Il brano procede sulla stessa lunghezza d’onda per tutti i suoi quasi cinque minuti e mezzo, caricandosi leggermente solo prima dell’assolo, che si ritaglia il suo spazio poco prima del finale più sontuoso.
The Waves” è una traccia acustica dall’intrigante retrogusto western quasi (e sottolineo quasi, prima di essere lapidato da una folla inferocita) morriconiano: provate a chiudere gli occhi durante il suo ascolto e ditemi che non vi sembra di essere in un film di Sergio Leone, nel cuore di una distesa dorata punteggiata di radi alberi che offrono una misera protezione da un sole assassino o davanti al fuoco di un bivacco, al tramonto, mentre il vento del deserto porta con sé i latrati d’un branco di coyote. A questo punto arriva “Deathbringer”, il cui riff d’apertura omaggia (diciamo così) una celebre canzone di un gruppo molto amato dai metallari di tutto il mondo, a rompere l’incanto e risvegliarci dal torpore con un brano più classicamente heavy, in cui le chitarre e tastiere tessono il loro tappeto ed Andrea riprende il suo tono enfatico senza però scadere nell’ampollosità citata in precedenza. Il brano rallenta poco dopo la metà per far posto a un arpeggio più disteso che funge da contrappunto ai rumori di guerra in sottofondo, per poi tornare ad un breve attimo di solennità e di nuovo all’arpeggio che conclude il brano, guidando l’ascoltatore verso la conclusiva “Ascension”, canzone su di giri caratterizzata backing vocals filtrate, sporadiche intromissioni dell’italiano nelle strofe ed un ritorno alle atmosfere desertiche che già avevano fatto capolino qua e là durante l’ascolto dell’album. La canzone viaggia su velocità piuttosto sostenute e si conclude con un’incursione strumentale nella quale si svolge il classico duello chitarra/tastiera che si risolve appena in tempo per la chiusura dell’album, forse un po’ troppo sbrigativa e, a mio avviso, inconcludente. Ciononostante mi sento di affermare che ci troviamo davanti ad un buon album di power metal che, pur non inventando nulla di particolarmente originale, garantisce una quarantina di minuti di musica ben confezionata, solida e grintosa, capace di far felici non solo gli appassionati del genere.

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