Recensione: Kings of Beer

Di Alessandro Zaccarini - 14 Gennaio 2007 - 0:00
Kings of Beer
Band: Tankard
Etichetta:
Genere:
Anno: 2000
Nazione:
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70

Obeso all’inverosimile, sdentato, con il sorriso ebete e il boccale da litro alzato in segno di giubilo, il re siede su di un trono costruito con casse di birra vuote. Il suo, neanche a dirlo, è un regno dove l’alcol scorre a fiumi e l’unica legge è quella del thrash metal. Benvenuti dunque in Kings of Beer, reame di sfrontatezza, prostitute, sbronze colossali, zingarate alcoliche e denuncie sociali, da un paio di decenni ormai pane quotidiano di questa amabile creatura che porta il nome di Tankard.

Questo disco, datato 2000, è sempre stato catalogato come uno degli album meno riusciti del combo della così detta Mainhattan. Persino la band, purtroppo, non attinge mai da questo piccolo gioiellino di alcolismo e squilibrio mentale per le proprie date live. Effettivamente nel disco qualche limite c’è, ed è soprattutto un difetto di eterogeneità e costanza: a brani pieni di grinta e traino se ne accodano altri divertenti, aggressivi, ma comunque meno riusciti. È soprattutto la prima metà dell’album a mettere in mostra le cose migliori, con l’apertura a pieni giri affidata alla canonicissima irruenza di Flirtin with Desaster o la pazza Hot Dog Inferno, scritta e interpretata (insieme alla band) da Andy Bulgaropulos, chitarrista in forza ai Tankard dal 1983 al 1998. E ancora la dissacrante Hell Bent for Jesus, col suo sgraziato trascinante (e thrashinante) corettino “Motherfucker die! Motherfucker die!” o la distruttiva I’m So Sorry. Tutto bello, tutto divertente, tutto in pieno stile Tankard, ma la vera perla del disco è la title-track: Kings of Beer, dove i Tankard si esibiscono in una geniale presa in giro dei Manowar, in un brano di epic-tharsh con tanto di simil-coro iniziale e testo tra i più follemente geniali che la band abbia partorito.

Nella seconda parte il thrash metal tedesco rimane attaccato ai solchi degli artigli con denti e artigli, come sempre, ma l’intensità cala. Nel finale c’è anche modo di citare e salutare i connazionali Blind Guardian e Gamma Ray con due song intitolate Mirror Mirror e Land of the Free.

Gli anni novanta non sono stati esattamente il periodo d’oro dei Tankard, che dopo ‘Stone Cold Sober’ sono sembrati perdere una parte della loro linfa e ispirazione. Kings of Beer è la fine di questo “medioevo oscuro”, è il disco che li condurrà alle porte di una seconda nuova giovinezza. Alla luce degli ultimi eventi è anche grazie a dischi onesti e sinceri come questo che la band dell’Assia ha tenuto saldamente la propria posizione, senza mai cedere ai tempi non proprio felici per la propria vitalità e per tutto il thrash metal in generale. Da qui ripartirà con ‘B-Day’, e la storia recente la conoscete tutti…

Ogni thrasher che si rispetti ha un posticino nel suo cuore per questo folle combo di Francoforte, perché al di là di limiti tecnici e quanto altro, con i Tankard si può stare tranquilli che sudore e attitudine old school non mancheranno mai. Kings of Beers non sarà ‘Zombie Attack’ o ‘B-Day’, non sarà uno degli episodi migliori della carriera di Gerre e soci, ma la sua grinta ce l’ha tutta, e di brani come I’m So Sorry, Kings of Beer o Flirtin With Desaster ne dovrebbe essere pieno il mondo.

Line up:
Andreas “Gerre” Geremia (Vocals)
Frank Thorwarth (Bass)
Andy Gutjahr (Guitar)
Olaf Zissel (Drums)

Tracklist:
01. Flirtin with Desaster
02. Dark Exile
03. Hot Dog Inferno
04. Hell bent for Jesus
05. Kings of Beer
06. I’m so Sorry!
07. Talk Show Prostitute
08. Incredible Loudness
09. Land of the Free
10. Mirror Mirror
11. Tattoo Coward

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

 

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