Recensione: Knives

Di Carlo Passa - 23 Ottobre 2013 - 16:55
Knives
Band: Tigertailz
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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67

I Tigertailz sono sempre stati un fenomeno originale e, forse proprio per questo, decisamente interessante. Assieme ai Wrathchild, hanno rappresentato la punta di diamante del glam-hair metal britannico degli anni ottanta, ampiamente perdente nel confronto con il proprio corrispondente statunitense. Mentre al di là dell’Oceano, i vari  Mötley Crüe, Poison e Warrant scorrazzavano tra feste scintillanti e jet privati, i Tigertailz potevano soltanto permettersi di eccedere nella lacca e alzare all’inverosimile le capigliature.
Una band sorta nel posto sbagliato, insomma. E maturata nel tempo sbagliato. L’effimero successo dei Tigertailz, infatti, risale al secondo disco, quel Bezerk che riuscì a scalare discretamente le classifiche dell’anno 1990. Bezerk, in vero un gran bel lavoro, fruttò alla band addirittura un contratto con una major (la Sony), che evidentemente aveva intravisto nei capelloni inglesi l’ennesima gallina dalle uova d’oro.
Tuttavia, come è ben noto, nel 1991 uscì Nevermind: il mondo dei Tigertailz svanì d’un colpo e le loro chiome s’afflosciarono miseramente.
Il terzo disco della band (intitolato Banzai!) fu pubblicato nel 1991, parto sfortunato a causa di una serie di beghe legal-contrattuali. In sostanza, un gran pasticcio che affossò definitivamente la carriera dei Nostri e li relegò nell’oblio dell’anticaglia colorata del decennio precedente.
Ma il rock non muore mai: ed eccoli, i Tigertailz del 2013, proporre un nuovo EP, intolato Knives. Della formazione classica è rimasto il solo Jay Pepper, la cui ostinata passione senza tempo quasi commuove chi lo ricorda giovane e agghindato al limite dell’impresentabile. A far sentire la propria mancanza, invece, è soprattutto il bassista Pepsi Tate, che fu figura essenziale negli anni d’oro della band.
La musica si commenta facilmente: sleazy glam rock classico, privo di ogni forma d’innovazione ma, al contempo, dotato di tutti gli ingredienti necessari al genere.
I testi non sono da meno. Shoe Collector vale da sola un intero corso sulla storia dell’hair metal: vanità fine a se stessa e impero del look. Una meraviglia per gli appassionati. Un ulteriore motivo di disprezzo per tutti gli altri.
I pezzi sono esattamente come li potete immaginare, tante sono le volte che li avrete già ascoltati da altre band, in altri dischi, in altri tempi. La qualità è generalmente buona, con una cima (One Life è oggettivamente fantastica nella propria completa ovvietà) e un burrone (Punched in the Gutz è noiosetta). Se Bite the Hand scorre senza lasciare molto, Spit It Out è forte di un ritornello davvero incisivo e alza la media dell’EP.
La produzione è grezza, minimale e perfetta per il genere.
La ragione vorrebbe un voto minimamente superiore alla sufficienza; il cuore, in ossequio ai propri antichi sogni adolescenziali alimentati anche da Bezerk, punterebbe molto più in alto, abbracciando Jay Pepper come si fa con un vecchio amico.
In tour a novembre nel Regno Unito: c’è tempo per comprare un biglietto low-cost e trovare una parrucca gonfiatissima.

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