Recensione: Last Of Our Kind

Di Eugenio De Gattis - 5 Marzo 2016 - 17:27
Last Of Our Kind
Band: The Darkness
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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76

Come titolo per il quarto album in studio (il secondo dopo la reunion) i The Darkness scelgono “Last of Our Kind” (Gli ultimi della nostra specie), quasi a volersi auto-proclamare, con immutata ironia, eredi ed ultimi esponenti di una certa tradizione: quella delle leggendarie rock band capaci di mettere d’accordo critica e grande pubblico. Ed in effetti, nonostante non manchino gruppi validi, va riconosciuto che purtroppo sono poche le nuove leve capaci di sfondare e far registrare certi numeri.

Mi avvicino a questo nuovo lavoro (il primo prodotto in autonomia da Dan Hawkins) incuriosito dal brano scelto dai Darkness come anteprima promozionale. Il pezzo “Barbarian”, appunto, che apre anche l’album ed è introdotto da un breve monologo incentrato sulla storia, realmente accaduta, di una sanguinaria invasione vichinga. Sì, sono proprio loro… non ho fatto confusione con qualche disco Epic Metal. E c’è qualcosa di strano anche nel sound. Le chitarre sono più acide e taglienti, il falsetto meno edulcorato, il ritmo… no, quello è quadrato come al solito. In realtà, ad un ascolto più attento, si può cogliere come la melodia strizzi l’occhio ai Kiss di “War Machine“, facendo così tornare tutto nella norma, se non fosse, come detto, per la scelta della tematica, che esula dallo stereotipo “sex, drugs, rock and roll”. Potrebbe trattarsi di un episodio casuale, ma va ricordato che i Darkness sono pur sempre reduci da una sbornia di successo che non ha risparmiato dolori, specie al loro frontman. Sin dagli esordi hanno provato a sdrammatizzare gli eccessi, visti (“Givin’ up”) e vissuti (“One Way Ticket to Hell… and Back”), ma hanno finito per esserne ugualmente travolti, fino allo stop forzato del 2006. E prima di rimettere insieme la sua creatura, Justin Hawkins ha preferito lavorare sotto pseudonimo (British Whale) ed avviare un progetto solista (Hot Leg). Insomma tanti indizi che costituirebbero una prova: i “nuovi” Darkness non rincorrono la popolarità e non disdegnano un approccio meno main stream. Si torna al disco con questa sensazione. Il brano seguente “Open Fire” è il vero “singolo” ed infatti ha un respiro più ampio, suoni vicini ai Cult di “She Sells Sanctuary”, un inciso catchy, ma allo stesso modo non manca di mordente. A completare un tris davvero notevole, arriva “Last of Our Kind”, che si scopre essere ispirata al film Hawk the Slayer (“La spada di Hok”) e forse per questo caratterizzata da un gusto pienamente anni ’80, con tanto di assolo in stile Van Halen. “Roaring Waters” è invece un esperimento riuscito a metà: quasi tre riff diversi all’interno della stessa canzone e nulla più. Il primo passo falso di un album che avesse continuato su certi livelli sarebbe finito fra i migliori di sempre. Più interessante, per fortuna, “Wheels of the Machine”, che per le sue atmosfere sembra una ballad composta direttamente da Jim Steinman (Meat Loaf, Bonnie Tyler). Tastieroni inquietanti, pensati magari per qualche pellicola postuma di Kubrick, introducono ed accompagano “Mighty Wings”, forse il passaggio più cupo all’interno dell’album, di certo quello più sperimentale. Si torna comunque a battere sentieri noti con la divertita, più che divertente, “Mudslide”. Poteva poi mancare l’ennesimo brano dedicato a ciò che più di tutto accomuna Justin e soci? Ovviamente no, quindi ecco “Sarah O’Sarah”, altra semi-ballad dedicata all’universo femminile. A seguire, un giro di chitarra che sembra ricordare molto “Ain’t no Fun” degli AC/DC introduce “Hammer and Tongs”, un Rock and Roll piacevole che però non decolla mai. Chiude “Conquerors”, pezzo dalle suggestioni Arena Rock, affidato in via eccezionale alla voce del bassista Frankie Poullain, che evidentemente era tornato per restare. A differenza della nuova batterista Emily Dolan Davies, reclutata per il lavoro in sala di registrazione e sostituita poco dopo la pubblicazione del disco da Rufus Tiger Taylor, figlio di Roger Taylor (Queen).

In conclusione, a distanza di tre anni dal buon “Hot Cakes”, giungono ulteriori conferme sull’ottimale stato di forma dei Darkness e su quella che pare essere una maturità ormai ampiamente conseguita, tanto che i membri della band tentano anche qualche variazione sul tema, riscuotendo apprezzamenti, quando non per il risultato, almeno per l’impegno. Sempre concreti e dissacranti allo stesso tempo, esattamente come il folle falsetto di Justin.

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