Recensione: Le Sacre Du Travail

Di Tiziano Marasco - 24 Giugno 2013 - 5:09
Le Sacre Du Travail
Band: The Tangent
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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72

Quello dei The Tangent è sempre un ritorno assai atteso dai fan del progressive rock, e questo Le sacre du travail, presentato come il più ambizioso lavoro di Tillison e soci (ce ne vuole) non fa certo eccezione. Il più ambizioso e per tematiche e per struttura. Un’opera rock in cinque movimenti di pastoral memoria (riferiti alla sinfonia Pastorale di Beethoven) e dal piglio cinematografico che in realtà andrebbe letta come un’enorme song unitaria; elemento questo che deve mettere in guardia più d’un ascoltatore, memore di pregevoli toppate quali The Whirlwind, Garden of dreams o The Incident. Tutte composiziozioni tecnicamente notevoli, con ottimi spunti, ma non esattamente di facile fruizione.

Proseguendo nelle dichiarazioni di intenti del supergruppo, notiamo che l’opera, più che a Beethoven, si rifà al Rite of spring di Stravinskij: Le sacre du travaille (il sacro del lavoro) vuole abbracciare un rito che coinvolge ogni giorno miliardi di persone, vale a dire il dì lavorativo dal risveglio al guardare la tv la sera.

Bando alle premesse per dire, a ragion veduta, l’ascolto di Le sacre du travaille ha prodotto, assai inaspettatamente, emozioni molto contrastanti tra loro. Forse si tratta d’un parere isolato, ma il primo ascolto di quest’album ha prodotto quello che Freud definirebbe un coitus interruptus: la prima impressione è stata esattamente quella di 55 minuti di nulla, all’infuori di lunghi tempi morti inframezzati da aperture orchestrali arzigogolate, che successivamente si scopriranno essere il leit motiv del disco ripetuto più volte. Abituati a prove come Not as good as the book, laddove l’ascoltatore s’innamorava dell’opera durante la prima fruizione, c’è davvero da restare disorientati.

Siamo forse davanti ad un nuovo The Whirlwind? Jonas Rehingold si è stufato dell’immediatezza dei Karmakanic e ha voluto regalarci una Circus Brimstone da un’ora? Il disco prenderà quota nei prossimi ascolti?

Ecco, fortunatamente la più inquietante di queste domande, la terza, è l’unica ad avere risposta affermativa. Perché al secondo ascolto inizia ad intuirsi qualcosa di quella freschezza che ha reso la tangente uno tra i migliori gruppi progressive del nuovo millennio. Si fanno strada alcune strofe canterburiane (nel senso che il cantato di Morning journey & The arrival si rifà in maniera piuttosto diretta alla tradizione folk popolare inglese, pur essendo supportato da ben più pomposa base musicale). Si fa strada l’ottima conclusione Evening TV, che probabilmente era andata perduta durante il primo ascolto a causa della spossatezza.

Nel procedere degli ascolti poi il distacco nella valutazione aumenta, il disco rivela spunti davvero piacevoli, ma anche alcune defiance piuttosto gravi. Prima fra tutte la scelta di far seguire ad un’intro, strumentale e non esattamente breve, una suite che parte con altri otto minuti strumentali. Va da sé che il primo quarto d’ora del disco trascolora fra ripetuti sbadigli. Il che a guardare il concept non fa una piega perché, trattandosi della parte riguardante il risveglio, è normale che di sbadigli ne volino parecchi, però se si parla di musica lo sbadiglio acquisisce altra valenza. Stesso discorso per l’interludio in quarta posizione.

Per quanto riguarda le tre suite invece (dimenticando gli otto minuti di cui sopra), il risultato è molto buono, ed anzi le prime due, trovandosi in successione, riescono a creare un ottimo continuum, un tutto che effettivamente è superiore alla somma delle sue parti. E questo solo perché continuano a far proprie melodie semplici intervallate dal cinematografico leit motiv. Tuttavia anche qui manca quella travolgente esuberanza che ha sempre caratterizzato questo ensemble ed a conti fatti solamente la già citata Evening TV tocca le vette a cui i nostri ci hanno abituati, unico pezzo che non sfigurerebbe nei capolavori del gruppo.

Insomma la flessione di COMM non sembra essere stata passeggera e i Tangent ancora una volta ci offrono un disco più che buono ma non più divino. A loro il merito di essere riusciti a comporre una one piece song in grado di lasciare un segno nelle nostre orecchie, una one piece song che in ogni caso riesce decisamente facile da assimilare ed in linea con la tradizione dei nostri. Che vengono promossi ancora una volta, sebbene il troppo travaille non abbia prodotto qualcosa di sacre.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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