Recensione: Legacy

Di Alessandro Marcellan - 13 Luglio 2007 - 0:00
Legacy
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Anno: 2001
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79

 “Legacy” è probabilmente un album minore nella discografia degli Shadow Gallery. Se non fosse che la band che non si è mai esibita live è anche quella che non ha sbagliato un disco, l’incipit di questa recensione potrebbe fuorviare, distraendo il lettore all’indirizzo di un’ingiustificata mezza bocciatura. E’ pur vero (o verosimile) che nelle intenzioni del combo americano quest’album dovesse rappresentare una sorta di “Carved in Stone pt. II”, riprendendo in qualche modo dal capostipite certe strutture con tanto di riferimenti testuali: il platter inizia con “Cliffhanger” (in questo caso, la “part 2”) e finisce con una suite di oltre 20 minuti che sfuma, come la celebrata “Ghostship”, in una traccia-fantasma la quale, muovendosi dal sampling del bussare di una porta, ha compimento fra atmosfere un po’ classicheggianti e un po’ new-age. Paiono evidenti, quindi, i riferimenti al passato, che hanno reso inevitabili e forse voluti (rischiosamente) i paragoni, vedendo fatalmente soccombere la nuova creatura di fronte al colosso del 1995 (per chi scrive uno dei 4-5 dischi fondamentali di tutta la scena prog-metal). Ma i capi d’accusa di fatto finiscono qui, o quasi, perché “Legacy” non è una nuova pietra miliare del progressive, ma è sicuramente un disco di valore che perviene in molti tratti a vette d’ispirazione che molte band del settore non potranno mai raggiungere.  

Rispetto ai dischi precedenti, permangono le linee melodiche concepite del bassista e fondatore Carl Cadden-James, ma il songwriting tende a concentrarsi maggiormente nelle mani nelle mani dei chitarristi e, complice anche la minor presenza in questo senso del tastierista Chris Ingles (che qui inizia in parte a staccarsi dalla band), il sound che ne consegue appare in certi passaggi più “heavy”. L’opener “Cliffhanger 2”, cui accennavamo, non sfugge alla regola, sebbene un inizio non particolarmente sorprendente (intitolato “Hang On”) faccia temere una possibile latitanza di idee nell’eccessivo appoggio all’omonima antenata: premuto il tasto “play” del lettore, si potrà pensare di aver inserito per sbaglio “Carved in Stone”, con il pianoforte e gli effetti elettronici introduttivi presi in prestito dal disco del ’95; gli stessi susseguenti riffs di base, pur in chiave maggiore, richiamano da vicino quanto già sentito nella prima “Cliffhanger”, e le linee del cantato non hanno sufficiente spazio per osare, tanto che fa la sua comparsa anche la citazione di un bridge già noto. L’esigente ascoltatore prog chiede ovviamente di più, e il “di più” è ciò che avrà: la 2a parte strumentale del pezzo (denominata “The Crusher”) riesce infatti nell’impresa di coinvolgere l’ascoltatore come e più della sua progenitrice di riferimento, lasciandolo incollato alle cuffie dello stereo nell’improbo sforzo di inseguire -ed immaginarle traslate sullo strumento- le acrobatiche evoluzioni della sezione ritmica (in particolare, come di consueto, nei magnifici suoni alti e compressi del basso), impegnata ad elargire generosamente tempi dispari a profusione, districandosi in itinerari 70iani (Kansas, Rush) o in frammenti debitori della fusion metallizzati a dovere, tra solismi virtuosi di chitarre/tastiere e giochi d’incastro gustosi sia dal punto di vista dell’esecuzione che sul piano melodico. Pericolo scampato, i nostri ci sono ancora. A questo punto, prima della suite finale, due coppie di brani, i  primi, a staccare, rivolti alla melodia di classe, gli altri più heavy-oriented. Piuttosto ricercata risulta in particolare “Destination Unknown”, che al principio sorregge il canto carezzevole di Mike Baker con pianoforte e chitarre acustiche, poi man mano si arricchisce di elementi (si veda il flauto suonato -come di consueto- da Cadden-James) e di intensità, con un finale in crescendo di stampo tipicamente prog-rock (vecchio amore dei primi Shadow Gallery, che qui con eleganza rileggono alcuni insegnamenti di Genesis e Queen). Di minor levatura appare invece la successiva “Colors”, la quale presenta caratteri analoghi alla track 2 risultando però priva del giusto mordente, anche a cagione di una fase centrale poco incisiva, che non si sviluppa adeguatamente (con cori prolungati e sensazione di tediosità) non permettendo al brano di lievitare e provocando un certo calo d’attenzione. Ma l’indice di ascolto si rialza immediatamente con la successiva coppia di brani, ed in particolare con “Society of the Mind”, pezzo dal ritmo incalzante in cui si affaccia il doppio pedale di Joe Nevolo e che pone sotto i riflettori il duello fra le chitarre di Allman e Gary Wehrkamp. Con risultati leggermente inferiori, ma pur sempre buoni, si presenta di seguito la title-track, che con il suo riffing intenso va a completare l’accoppiata heavy. Arriva quindi il momento della lunga “First Light”. Introdotta lentamente da solenni atmosfere sintetiche pinkfloydiane, la suite si articola in parti melodiche ed altre più sferzanti fra loro ben amalgamate: i delicati accordi acustici che accompagnano la voce di Mike Baker, le accelerazioni strumentali a metà brano (notevole quella aperta dal pianoforte, in cui si inseriscono progressivamente sezione ritmica, chitarre elettriche ed effetti vari), i brevi intermezzi sinfonici, le parti arpeggiate e i coretti di accompagnamento riecheggianti i vecchi Genesis, non danno mai l’impressione di essere incollati “a forza”. Quando gli accordi di chitarra iniziali riprendono e si dissolvono (dopo circa 24 minuti, dato che i 34 nominali del booklet tengono conto della ghost-track e dei minuti di silenzio che la precedono) torna un po’ l’effetto deja-vu, ma l’ascoltatore se ne esce soddisfatto e senza sentirsi in dovere di rimpiangere la suite conclusiva di “Carved in Stone”.  

Lo “score” finale segna nel tabellino molti punti a favore e pochi cedimenti, con la soddisfazione dei supporters che hanno la conferma di una band che non tradisce nemmeno quando pare meno ispirata. Già, perché, ricollegandomi alle premesse…“Legacy” è probabilmente un album minore nella discografia degli Shadow Gallery, ma certamente -scuserete la banalità- sarebbe il fiore all’occhiello in molte altre della “concorrenza”. Il consiglio, obbligato, è dunque quello di pensarci bene prima di snobbare un prodotto valido come questo.  

Alessandro Marcellan“poeta73”  

Tracklist:

1. Cliffhanger (13:05)
    a) Hang On
    b) The Crusher
2. Destination Unknown (7:01)
3. Colors (7:02)
4. Society Of The Mind (5:23)
5. Legacy (5:04)
6. First Light (34:18)  

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