Recensione: Legions of the Sun

Di Stefano Usardi - 18 Agosto 2016 - 0:00
Legions of the Sun
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Finché non mi è stato proposto di trattare questo “Legions of the Sun” non conoscevo i Final Chapter, gruppo alemanno dedito ad un power metal molto sinfonico abbastanza inquadrabile nel filone Stratovarius, soprattutto per quanto attiene alle massicce iniezioni tastieristiche che gonfiano l’album: il motivo di questa mia ignoranza è da ricercare nel fatto che l’unico altro full lenght del combo teutonico è datato 2004 (ahi carramba!), ed in quel periodo ero nel pieno della mia era black metal, quindi spero mi perdonerete.
Power sinfonico tedesco, avevamo detto, che in genere si traduce in una proposta fedele a pochi diktat molto precisi: batteria sparatissima, cori possenti e spesso un po’ tamarri, chitarre in evidenza e tastiere onnipresenti. Naturalmente qui non si sgarra di una virgola dal sentiero appena descritto (concetti come innovazione e originalità non fanno rima molto spesso con power metal), ma se a questo ci aggiungete un cantante che in più di un’occasione mi ha ricordato il sempiterno Morby vi renderete conto che di ciccia in tavola ce n’è parecchia, quindi direi di partire senza ulteriori preamboli.

Il compito di aprire le ostilità è affidato a “Trace of Fate”, introdotta dalle liquide note di un pianoforte seguite a ruota da una melodia di tastiera che più ruffiana non si può; per fortuna l’ingresso in campo delle chitarre risveglia il resto gruppo che, messo così in riga, sforna una classica power metal song: quadrata, compatta e trionfalissima, con tanto di rallentamento centrale per consentire alle chitarre di tessere il loro tappeto di riff prima del coro femminile e della classica alzata di tono finale. Ok, niente di nuovo sotto il sole, ma presentazione tremendamente efficace.
Sail Away” naviga nelle stesse acque senza deviare di un millimetro dalla rotta, rallentando di poco i ritmi e puntando su un’impostazione vocale, se possibile, ancor più tracotante e un ritornello da cantare tutti in coro. Non male l’escursione solista nella seconda metà del brano, prima del breve rallentamento trionfale in vista del finale. Si prosegue con “Garden of Fear”, canzone leggermente più rilassata in cui il nostro Oliver cede il posto ad Ulrike dietro al microfono: la scelta, complice anche il bell’intermezzo strumentale, smorza un po’ il tasso di trionfalismi delle canzoni precedenti, donando al pezzo una spruzzatina in più di eleganza. Eleganza che si scioglie come neve al sole con l’arrivo della title-track, inno tirato e caciarone tutto giocato su tempi quadrati, su esplosive quanto brevi accelerazioni e, soprattutto, sui soliti cori disseminati un po’ dappertutto.
Eternal Deep” viene introdotta da un tastierone solenne e cadenzato, seguito a ruota da un urlo molto Morbyano, se mi concedete il termine, che lascerebbe presagire una cavalcata ignorantissima e sparata a velocità siderali, ma che invece si traduce in una cavalcata solo mediamente ignorante e dalla velocità non proprio esagerata, in cui la differenza la fanno i cori tracotanti disseminati senza soluzione di continuità lungo tutta la sua durata. Buona traccia ma forse mi sarei aspettato qualcosa di più. Con la seguente “The Key” si torna alla voce femminile e ai tempi meno tirati che, si vede, ad Oliver stanno stretti: il profumo di Stratovarius invade le narici, soprattutto per le tastiere clavicembalose (beccati questo, Accademia della Crusca!) che aleggiano qua e là, per un brano senza infamia e senza lode che alla fine si lascia ascoltare ma che per fortuna dura poco, e che in meno di cinque minuti ci consente di arrivare alla successiva “The Journey”. L’introduzione è quasi epica, con una melodia avvolgente ed eroica che spiana la strada alla coppia di voci le quali, dopo essersi passate la palla da una traccia all’altra per quasi tutto l’album, finalmente si alternano nello stesso brano, sorrette ora da tastiere malinconiche ora da riff muscolari. L’entrata in scena del piano introduce la seconda parte del brano, più compassata e strumentale, che a sua volta si chiude con la ripresa del coro centrale cedendo la scena alla suite finale.
The Battle” inizia compassata, introdotta anche qui dalle languide note di un piano e da una melodia malinconica. Anche con l’ingresso degli strumenti elettrici la canzone si mantiene su un ritmo scandito e sofferto, o almeno fino a che Ulrike resta dietro al microfono: guarda caso, infatti, la brusca impennata nel ritmo della canzone segna l’entrata in scena di Oliver e, con lui, l’inizio della battaglia: da qui in poi “The Battle” procede a ritmi ben più sostenuti, smorzati solo per un intermezzo narrativo (per la verità tutt’altro che memorabile) e per il conseguente rallentamento atmosferico, volto a dare maggiore epicità alla traccia prima del ritorno alle sfuriate di doppia cassa. Il finale solenne sancisce la conclusione di un buon album di power metal sinfonico che, pur non inventando nulla e stando bene attento a non uscire mai dai classici stilemi del genere, si lascia ascoltare dall’inizio alla fine senza annoiare, concedendo all’ascoltatore anche un paio di ottime tracce belle cariche. Certo, non so se era il caso di aspettare dodici anni, ma alla fine della fiera questi non sono affatto problemi miei, e quindi un bel sette questo “Legions of the Sun” se lo merita tutto.
Bentornati.

 

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