Recensione: Let The Games Begin

Di Fabio Vellata - 20 Febbraio 2011 - 0:00
Let The Games Begin
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Anno: 2011
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78

Cosa può nascere dall’incontro tra membri di due delle più rilevanti e significative band power e progressive d’origine italiana?
Ma un ottimo gruppo di sano, viscerale ed antiquato Hard Rock, che altro…!

A dimostrazione di una costante e durevole riscoperta di suoni e stili troppo frettolosamente confinati tra la polvere dei ricordi, sono sempre più numerosi i musicisti d’estrazione heavy classica decisi a soddisfare il desiderio di un ritorno alle origini, pronti a rompere gl’indugi ed a dichiarare il proprio amore per suoni appartenuti alla tradizione di un ventennio fa. E con i quali, come facile da intuire, hanno – sin da giovanissimi – imparato ad apprezzare un determinato modo di far musica.

Una lista già cospicua anche dalle parti di casa nostra che, insieme ad un paio di altri esempi illustri come Andrea Martongelli, coinvolto nei selvaggi Killer Klown dopo aver militato in Arthemis e Power Quest e Paolo “Paco” Gianotti, ex dei Secret Sphere, oggi nei massicci Lucky Bastardz, annovera, da qualche tempo, anche questo nuovo ensemble nato dall’incontro tra elementi degli Elvenking e (guarda caso) Secret Sphere, band che, a quanto pare, ha da sempre posseduto una potente anima “rock”.
Andrea Buratto, bassista proprio della “Sfera Segreta”, in compagnia del collega di rhythm session Federico Pennazzato (anch’egli nell’attuale formazione dei Secret), del singer Davide Moras (meglio noto come Damnagoras nei friulani Elvenking) e dell’ottimo session Andrea Piccardi, sono, infatti, i protagonisti degli Hell in The Club, interessante novità sorta entro i nostri confini, che non fa resistenza nel mostrare un attaccamento profondo ai toni ed ai colori del più classico hard rock di estrazione ottantiana.

Ascoltare il loro debut album “Let The Games Begin” è un po’ come ritrovarsi catapultati in pieno 1989. Un coacervo di soluzioni ultra catchy che solleticano la memoria richiamando in ordine sparso Poison, Ratt, Firehouse primi Danger Danger, Kiss e Skid Row, miscelati e filtrati, senza il minimo modernismo o desiderio d’attualità che vada oltre una produzione dei suoni pulita e limpida.
L’esordio del quartetto, potrebbe senza troppi problemi essere spacciato per un ellepì concepito durante l’eroica epoca d’oro del rock melodico, tanto si mostra fedele e rigoroso nella costruzione di brani dotati di una sostanziale orecchiabilità di fondo, con linee melodiche immediate e classici ed autentici cori da “air play”.
La percezione di ascoltare qualcosa di parecchio familiare e per nulla nuovo all’orecchio, è sempre in agguato. Ma del resto, dal rock e dalla sua derivazione “dura”, mai si potrebbero auspicare eccessi d’originalità o idee troppo ardite. Contravvenendo ad una natura, per concetto, conservatrice e cementata dalla consuetudine, non parleremmo forse neppure di hard rock o, come in questo caso, di “hair metal”.

Ecco quindi che il menu apparecchiato dal quartetto, prende forma modellandosi con precisa devozione sui dettami che hanno reso celebre il genere, andando alla ricerca, anziché dello spunto “diverso” o rischioso, dell’hookline che vada a ficcarsi in testa ed induca l’ascoltatore in quel processo d’immedesimazione che porta inevitabilmente ad un’unica conseguenza: canticchiare a ripetizione il ritornello del brano.
E il bello è, che gli Hell In The Club centrano l’obiettivo in scioltezza più volte, arricchendo una tracklist corposa, di una discreta serie di colpi di notevole effetto.
È il caso senza dubbio della scintillante “Rock Down This Place”, traccia che irrompe come una saetta dopo l’esordio piuttosto anonimo di “Never Turn My Back”, regalando come da programma, grandi cori da arena e ritmiche hair metal. O delle successive, più ragionate, “On The Road”, “Since You’re Not Here” e “Another Saturday Night”, in cui gli echi di Danger Danger e Poison sono semplicemente un “chiodo fisso” e lasciano riaffiorare sapori legati all’easy listening più divertente degli eighties.
Qualche asperità, per giustificare un omaggio a Skid Row e Ratt, deriva dai suoni più squadrati di “No Appreciation” e “Forbidden Fruit”, pezzi strutturati utilizzando influenze a tratti leggermente più glam, ma sempre e comunque riforniti di voluminose quantità d’abbondante melodia.
Brett Michaels approverebbe parecchio poi, il piglio mostrato nella realizzazione di “Star”, tipica ballata da rocker zuccheroso in stile “Life Goes On”.

Una coppia di filler, dazio inevitabile comune anche ai grandi classici dei “bei tempi”, è infine fisiologica e questa volta prende i nomi di “Daydream Boulevard” e “Don’t Throw In The Towel”, episodi meno ficcanti e divertiti di quanto ascoltato altrove, utili nel mostrare la notevole abilità strumentale del gruppo ed a raggranellare un paio di numeri in più in scaletta, ma tutto sommato, di caratura inferiore.

Un esordio insomma, decisamente sopra le righe per gli Hell In The Club, gruppo che non sappiamo quanto sarà destinato a durare ma che, anche solo per lo spazio di un unico disco, ha saputo riportare alla mente sensazioni legate ad un’epoca in cui i best seller si chiamavano “Flesh And Blood”, “Firehouse” e “Danger Danger”, con risultati senz’altro notevoli.
E in fondo, chissenefrega davvero, se la personalità è pochina ed il disco si mostra all’apparenza, come un collage di idee prese in prestito da grandi maestri della scena…
 
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Tracklist:

01.    Never Turn My Back
02.    Rock Down This Place
03.    On The Road
04.    Natural Born Rockers
05.    Since You’re Not Here
06.    Another Saturday Night
07.    Raise Your Drinkin’ Glass
08.    No Appreciation
09.    Forbidden Fruit
10.    Star
11.    Daydream Boulevard
12.    Don’t Throw In The Towel

Line Up:

Davide Moras – Voce
Andrea Buratto – Basso
Andrea Piccardi – Chitarra
Federico Pennazzato – Batteria
 

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